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La battaglia dell’Everest

Creato il 06 giugno 2012 da Cren

La battaglia dell’EverestUn tempo, quando gli Sherpa pascolavano gli Yak, facevano il formaggio e  commerciavano fra il Tibet e le valli del Nepal, sorridevano e non capivano perché un occidentale spendesse un sacco di soldi per salire sulle montagne, qual’era lo scopo, perché faticava come un matto.   Un tempo la Sagarmatha (Chomolungma in tibetano o Signora del Cielo), l’Ama Dablam (la Grande Madre) e tante altre montagne del Nepal erano viste solo come potenti forze della natura, collegamento fra la terra e gli Dei, dimora degli stessi. Erano perciò venerate, rispettate tant’è che per alcune era vietato raggiungere la vetta.

 Oggi, gli sherpa, sono diventati gestori di lodges, portatori, guide ed alpinisti. Le più rinomate agenzie di Kathmandu sono gestite da Sherpa e vige il loro monopolio in tutto il Solu Khumbu che è diventato una delle più ricche regioni del Nepal. E, anche loro, hanno preso gusto alle scalate. In quest’ultima stagione uno Sherpa di 51 anni ha raggiunto la cima 3 volte in 8 giorni, una ragazza nepalese di 16 anni è stata la più giovane scalatrice, 9 impiegati dello stato nepalese hanno organizzato una spedizione e anche il figlio del leader maoista Prachanda ha compiuto la sua Peace Mission 2012 (alla fine, almeno lui, senza soldi pubblici). Proprio in quel giorno, il 26 maggio, erano in coda fra ghiacciai e ferrate ben 87 persone. Poi la donna giapponese di 73 anni, 15 ciclisti al Campo Base e via recordando. Nel 2010 32.800 turisti hanno scarpinato nei sentieri del Sagarmatha National Park (portando guadagni per il governo di USD oltre 26 milioni).

Nei giorni scorsi,  la 10° maratona, vinta da Purbha Tamang, ha chiuso la stagione e le nuvole hanno preso il posto delle spedizioni, dei rambo in tuta nera che maltrattano le guide, dei ciclisti impazziti sui sentieri, delle folle nelle lodges, degli scalatori giapponesi in crisi d’altitudine ai 3.400 metri di Tengboche. Già alla fine di maggio, le condizioni climatiche (quest’anno non favorevoli) impediscono le spedizioni e già in quei giorni una decina di gruppi è tornata a casa. L’arrivo del monsone rende complicati i voli fino a Lukla, blocca decine di turisti come nel novembre 2011, il caldo  aumenta il rischio di valanghe e frane, le nuvole  impediscono visibilità.

 Ma quest’anno, come accadde già nel passato, la corsa all’Everest ha provocato un record di morti. Il 19 maggio all’ultimo campo (m. 7.000, in un mare di spazzatura ) stanziavano 150 persone attendendo che il tempo migliorasse; nelle 48 ore di bel tempo fra il 26 e il 27 maggio sono salite in vetta 150 persone. Questa calca provoca un gran casino verso la vetta e, quest’anno, tanti feriti con ossa rotte, sei morti il 24 maggio (quando si formò la coda di scalatori), altri sherpa morti in aprile. Una piccola guerra che si ripete ogni anno durante la stagione delle scalate (110 morti negli ultimi dieci anni). Ci son tempi da rispettare per non rimanere bloccati, o rallentati dal brutto tempo e dalla notte, passaggi che obbligano la discesa singola (come nella death zone a m.8.000 dove nel 1996 15 scalatori morirono). Mi dicono che per essere in condizioni di sicurezza bisogna raggiungere il Campo 3 (dal 2) in un massimo di 7 ore. Se, nelle spedizioni commerciali (costo minimo euro 30.000) qualcuno rallenta, sta male, i partecipanti vogliono, comunque, che il loro investimento non sia sprecato. Malgrado quanto possono suggerire le guide.

Tutti hanno vantaggi dalla corsa all’Everest le agenzie nepalesi e occidentali, il governo nepalese che nel 2010, solo per i permessi per l’Everest, ha incassato USD 2.343.000 (su un totale per i fees per le spedizioni di USD 3.028.000). Sono 326 le montagne aperte agli scalatori (25 solo nel Khumbu) ma la palla dell’Everest è la più contagiosa. Si parla anche di chiudere l’Everest per una stagione per favorire la conoscenza degli altri picchi. Ipotesi contrastata da tutti gli operatori. Io ero andato a fine agosto, fatto il giro inverso (e faticoso) dai laghi di Gokyo, visto da lontano il Cho Oyu, spezzato il cuore correndo sul plateau del Kala Pattar, prima che le nuvole chiudessero il cielo, e impedissero agli occhi (e alla macchina fotografica) di registrare una delle cose indimenticabili della propria vita.


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