La bella e la bestia
Creato il 27 febbraio 2014 da Veripaccheri
La bella e la bestia
di Christophe Gans
con Léa Seydoux, Vincent Cassel, André Dussollier, Eduardo Noriega,
genere, thriller, fantasy, sentimentale
Francia, 2014
durata, 110'
I grumi depressivi intrinseci ad
un’annosa solitudine, figli di una maledizione forse inespiabile,
inopinatamente velocizzano il loro flusso in circolo e si rimescolano
con le epifanie di un amore, la purezza del cui primo slancio rende
percorribili ancora le vie del riscatto ed arma l’animo del coraggio
utile a saldare una volta per tutte i conti con il destino. Tali erano i
poli attorno a cui ruotava (e ruota) un racconto archetipico come “La
Bella e la Bestia” di Mme de Villeneuve, vecchio oramai di due secoli e
mezzo abbondanti. Ancor più grandi, invece, si facevano gli estremi
delle aspettative riguardo una sua ulteriore riproposizione, se si tien
conto dell’approccio scelto da Gans, ossia quello di una rilettura
complessiva del testo anche alla luce dell’influenza della tradizione
classica (Ovidio, in particolare), di per se’ pregna di echi sia storici
che leggendari e con lo spostamento in avanti dell’azione di una
settantina d’anni. Come sovente accade, pero’, i fatti s’incaricano poi
di smentire le intenzioni. Figurarsi le aspettative.
Ciò soprattutto in ragione del
fatto per cui la narrazione (filmica) partita nel solco della ‘fabula’
gotica tradizionale della quale, anzi, anticipa taluni accorgimenti,
pian piano scivola – incalzata, tra l’altro, come da una vera e propria
“impellenza” degli effetti visivi a snocciolarsi qui e ora – nel torpore
tutt’altro che romantico di un tira-e-molla sentimentale, decisivo si’
per gli snodi della vicenda ma mai sorretto da un’autentica tensione
sessuale in grado di rendere palpabile la passione di un amore “diverso”
e lo sguardo che esso implica. E questo vuoi per la scarsa alchimia
degli interpreti – la Seydoux da un lato (l’altra meta’ della “Vita di
Adele”, per intendersi) che ancora fatica ad arginare quel certo che di
scostante che ne irrigidisce l’atteggiamento e il pur sempre simpatico
Cassel, dall’altro, che qui, almeno per il poco che rimane in scena con
le sue fattezze, senza troppi patemi, traccheggia nei territori a lui
familiari di una spontanea malia briccona – vuoi, pecca forse davvero
dirimente, per l’invalsa tendenza di Gans, che risale ai tempi di
“Crying Freeman”, attraversa per intero “Il patto dei lupi” per
attenuarsi solo in parte in “Silent hill”, a soprassedere o
semplicemente a tirare dritto quando ci sarebbe da soffermarsi sulle
modificazioni interiori dei personaggi, per privilegiare lo spericolato e
ripetuto alternarsi di momenti frenetici riconducibili all”azione’ pura
e un anodino ricamare descrittivo che accosta, spesso sovrapponendoli
con esiti non sempre felici, suggestioni diverse: da reminiscenze
figurative impressioniste a evocazioni di Bocklin, passando per tracce
di un certo iper-decorativismo preraffaelita presenti nelle scenografie
ingombre di arazzi, mobilio, statue, infiorescenze, così come nei
colori, nelle fogge e nelle trame complicate degli abiti (e sorvolando
sulla matrice pressoché totalmente computerizzata di tanta
mobilitazione).
E’ su queste direttrici che
Belle s’innamora della Bestia – o meglio, “dice” di star innamorandosene
– mentre il suo sentimento, se esiste, si confonde e si diluisce
all’interno di peregrinazioni pensose nei meandri del labirintico
castello-eremo della Creatura. Parimenti, la Bestia spia in tralice la
giovane donna con l’ovvio imbarazzo aggressivo ingenerato dalla sua
mostruosità, e poco più: senza, cioè, quello sconforto e quella mestizia
che arricchirebbero i suoi gesti della stanchezza colpevole e
dell’amara dolcezza atte a stimolare il sospetto circa il vero cruccio
che ne ottenebra l’esistenza: ovvero uno stupido peccato d’orgoglio,
l’ennesimo regalo fatto alla Morte che se esiste qualcosa di cui non ha
bisogno e’ di godere di soverchi vantaggi.
Tutto nel cinema di Gans, in
altre parole e fino ad ora, almeno, si ordisce e si consuma in
superficie, la quale, oggi come oggi essendo organizzata secondo la
“tirannide” esigente del digitale, tende a comprimere sempre più lo
spazio minimo dell’umano, nella persuasione tutta moderna, tutta
“veloce”, che la moltiplicazione all’infinito del “visibile” – delle
prospettive, dei punti di vista come di quelli di fuga, delle
proporzioni, dei riverberi – sia di per se’ sinonimo di empatia.
Inquadrature sovraccariche, dettagliatissime, percorrono quindi, al pari
di tante opere simili, anche “La Bella e la Bestia” (basterebbero, per
tutte, le sorprendenti varietà cromatiche esibite nelle sfumature più
minute o la sempre efficace esuberanza ‘tentacolare’ infusa nella
rappresentazione del mondo vegetale) spostando ancora di un po’ il
limite dell’eterna lotta dei sentimenti contrastanti – ma pure i loro
incanti, le loro “lentezze” – verso un braccio di ferro più concreto ma
più freddo tra le sacrosante istanze dello spettacolo e lo spauracchio
dei “momenti morti”.
(pubblicato su dreamingcinema.it)
TFK
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