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La bellezza della scrittura

Da Marcofre

Come riuscire a capire la bellezza di una scrittura? Esiste un metodo, o dei parametri, che permettano di comprendere che quanto si legge (o si scrive) non è aria fritta?

La risposta che si riceve è in genere un sonoro: “Boh!” Oppure un: “No”. In entrambi i casi immagino siano il risultato di un’idea che più o meno recita: “È difficile capirlo, allora diciamo che va bene un po’ tutto”.

In questa maniera non scontentiamo nessuno, un po’ tutti ci sentiamo rassicurati. La realtà è scomoda, perché a colpo d’occhio mi rendo conto che tra me e Tolstoj esiste eccome una differenza. Questo non mi impedisce di provarci, ma che desolazione quando si riemerge da “La morte di Ivan Ilic”, e torno alle mie righe. Chiunque abbia un briciolo di buonsenso lo sa, ma garantisco che il buonsenso di questi tempi ha raggiunto delle quotazioni inaudite. È sempre più raro.

Non sto qui a ripetere le solite cose, per esempio che la scrittura deve essere corretta, eccetera, eccetera.

Però ci stiamo avvicinando a un punto importante. Non basta che le parole siano corrette dal punto di vista della sintassi e della grammatica.

Che siano quelle giuste, in modo che possano essere efficaci.

Occorre che siano capaci di comunicare una visione. Quello che un bravo lettore (ma si tratta di pochi esemplari) cerca, è una voce capace di lacerare i codici di comunicazione nei quali vive.

Noi viviamo immersi nei luoghi comuni: basta sedere in una sala d’aspetto di uno studio dentistico, e attendere.

Si parlerà del tempo; di come era una volta. Insomma: si crea una sorta di terreno comune dove incontrarsi senza venire alle mani. Lo stesso succede sui giornali, nelle trasmissioni televisive dove il linguaggio solo in apparenza viene lasciato al caso. In realtà tutto è pianificato e deciso in precedenza.

Replicare questi modi di esprimersi anche in narrativa, è un errore enorme. Conduce al successo? Sì, ma resta un errore. Vale la pena commetterlo? Ciascuno risponda come meglio crede, ma io non ho intenzione di farlo. Magari ci casco dentro senza rendermene conto.

Questo in parte fa piazza pulita di alcune idee secondo le quali si deve seguire la corrente. Adeguarsi al pubblico. Si ripete spesso che è necessario parlare la lingua del lettore; ma è un errore. Devo usare la mia. O meglio: se ho talento, questo mi deve condurre alla scoperta della mia lingua, di quel mezzo che mi permette di zittire i codici di comunicazione quotidiani perché.

 

Quando Maigret, con un sospiro di sfinimento, scostò la sedia dalla scrivania sulla quale teneva appoggiati i gomiti, l’interrogatorio di Carl Andersen durava esattamente da diciassette ore.

 

Esatto: un brano tratto da “Il Crocevia delle Tre Vedove” di Georges Simenon. È l’incipit. Che lingua è? Del lettore? O di Simenon? Quello che appare essere una semplice frase, è solo perfettamente costruita in modo da sembrare la lingua del lettore. È Simenon al 100%, certo, e non solo perché sulla copertina del libro c’è il suo nome.

Leggere la frase di un autore produce (spesso), uno stacco. Non è affatto la continuazione di quello che ascoltiamo alla radio, alla televisione o sul tram. È l’interruzione di qualcosa, e l’inizio di un’altra cosa.

Un’altra lingua finalmente bella.


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