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L’arrivo di Marcello avviene in un luogo famoso per una partenza, Quarto dei Mille, dove oggi, ma l’ieri l’oggi o il domani contano poco, vi abitano sospesi uomini custodi di una, cento, mille storie, piccole o grandi, che sono state, sono o saranno, come quella di Enzo e Mary.
Destabilizzando il tempo filmico, e di conseguenza anche la natura della pellicola: è documentario? È fiction?, il regista deduce il suo protagonista da un ambiente che negli anni lo ha forgiato. Il porto è un labirinto di giganteschi container, gli spazzini tentano di lavare strade indelebilmente sporche, i vicoli di notte sono budelli per topi, le puttane sulle sedie abbracciano vecchietti quasi contenti, ed Enzo, un uomo emarginato, ci viene presentato per frammenti mentre percorre le strade di Genova in un’odissea spazio/temporale.
Quella che apparentemente poteva sembrare la radiografia storica di una città (la dagherottipia in movimento di un ragazzo che si tuffa), pian piano, passando dal generale al particolare con la voce off di Mary, diviene il ritratto sensibile di due persone che si vogliono bene. Se l’errare di Enzo, nel duplice significato della parola, era seguito/narrato con uno sguardo attivo di Marcello, una volta che l’uomo entra nella casa di Mary, l’autore poggia la camera sul treppiedi e lascia che la narrazione di una storia, questa volta d’amore, prenda il largo.
Il film raggiunge qui il suo spannung, in un apice di rara densità cinematografica che sancisce il punto di arrivo del viaggio. Quello che vediamo dopo, ovvero una casetta di campagna con dei cani che scodinzolano, è un’altra storia, purtroppo immaginaria.
Restano gli uomini delle caverne, abitanti di un luogo in cui il tempo ha sedimentato la memoria, e dove l’arché, il principio originario, non è altro che la vita, anche se al limite come quella di Enzo e di Mary ma che forse proprio per questo merita di essere vissuta, e quindi raccontata nello spazio di un film, meraviglioso.
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