Sono stata sul suolo cambogiano solo 24 ore, ciò nonostante questa terra mi è entrata dentro rapidamente come poche altre volte mi è successo. Un viaggio inaspettato ed organizzato il giorno prima per accompagnare degli amici che dovevano uscire dalla Thailandia per problemi di visto. Un viaggio via terra in pulmino, 4 adulti e 4 bimbi. 16 ore di viaggio fra andata e ritorno per arrivare alla frontiera di Poipet, varcarla e raggiungere Angkor Wat, la nostra destinazione finale. Una meta che desideravo visitare da tanto e che non ha deluso le mie grandi aspettative.
Eppure, parte della bellezza di questo weekend, è stato proprio il viaggio per arrivarci. Itinerario che sicuramente non avrei mai percorso se avessi organizzato la visita ad Angkor Wat come da copione e senza fretta con volo diretto Bangkok-Siem Riep. Ed avrei perso così tante belle istantanee che sono tornate con me a casa, impresse dentro la macchina fotografica e dentro la mia mente.
Le prime sensazioni forti sono arrivate già al momento di varcare la frontiera. Avevo sentito parlare spesso di questo leggendario passaggio via terra fra Cambogia e Thailandia in maniera sempre negativa. Dai racconti sembrava un po’ un luogo del terrore con file eterne, contrabbandieri e banditi pronti a derubarti o circuirti. Per gli amanti di Terzani, il luogo dove rischiò di essere fucilato da un giovane Khmer rosso. La mia immaginazione però non si era spinta abbastanza in là perché, a quello che ho visto, non ero preparata. Non in termini di pericolo, ma come atmosfera.
Arrivati al confine bisogna scendere dal mezzo con cui si è arrivati. I mezzi thailandesi non possono infatti varcare la frontiera ed occorre quindi attraversarla a piedi per passare il controllo passaporti e raggiungere il mezzo cambogiano prenotato che aspetta dall’altra parte.
Camminando ci si trova subito immersi in uno scenario d’altri tempi. La strada fra le due porte d’ingresso è tutto un via vai di carri stracolmi di ogni mercanzia, trascinati da uomini e donne a piedi come se fossero animali da soma.
In questo clima di drammaticità c’erano però anche gli sguardi dolci delle vecchie venditrici sedute per terra con le loro mercanzie, che non hanno fatto mancare un sorriso sdentato ai nostri bimbi mentre gli passavamo davanti.
E in questo contrasto forse c’è proprio tutta la storia di questo popolo, ancora legato con i ricordi alla soppressione e sterminio da parte dei Khmer Rossi, ma pronto a ritrovare almeno la capacità di sorridere. Proprio la lettura della storia della Cambogia durante il viaggio in pulmino ci ha permesso di addentrarci meglio nella storia e nell’aria che si respira in Cambogia. Una delle civiltà antiche culturalmente più evolute del sud est asiatico ridotta ad essere uno dei paesi più poveri ed arretrati. Anni recenti di terrore che hanno sterminato quasi due milioni di persone su una popolazione totale di soli otto milioni. Soprattutto fra il ceto più acculturato. Un disegno allucinante del leader comunista Pol Pot per eliminare ogni traccia della cultura del passato e creare un modello socialista basato sull’agricoltura. Chi non fu ucciso venne allontanato dalle città e costretto ad una vita di stenti in campagna a cui non era abituato. Furono chiuse le scuole e bruciate le biblioteche, soppressa la moneta e reintrodotto il baratto.
E così si presenta ancora oggi la Cambogia: pochissimi centri urbani e tanti piccoli villaggi lungo il fiume che spacca a metà il paese ed influenza la vita delle campagne e dei loro abitanti: il mitico Mekong. Usciti dal caos e dall’atmosfera di orrore di Poipet, ci siamo ritrovati anche noi immersi nella pace della campagna. Estese pianure coperte quasi interamente di risaie. Un verde abbagliante ovunque.
Rare casette su palafitte per resistere alle tante inondazioni della stagione delle piogge. Pochissime auto. Qualche mezzo agricolo e qualche camioncino con il cassone aperto sempre carico di persone che lì un passaggio comodo e motorizzato è ancora cosa rara. Qualche motorino e tante biciclette. Era dai miei viaggi nelle zone più remote dell’Indonesia che non vedevo persone trasportare qualsiasi carico sulle loro biciclette in un inimmaginabile equilibrio. Tante persone a piedi di ritorno dai campi, spesso scalze.Alcune ancora che si attardavano nei campi, immersi fino alle ginocchia nell’acqua delle risaie. Alcune intente a fare il bagno nelle pozze d’acqua per togliersi da dosso il fango ed il sudore della giornata. Tanti bambini lunga la strada incuranti delle auto e dei camion che passano veloci sulla lunga strada sempre dritta che porta a Siem Reap. Chi con la sua bicicletta da adulto perché soldi per giochi e bici da bimbo non ce ne sono.Chi da solo o con la madre.Ragazzini che correndo sul ciglio della strada, riportano a casa la mandria di mucche. Tanti volti giovani in un paese dove quasi la metà della popolazione ha meno di 15 anni. Perché una generazione è stata sterminata, perché ancora alta è la mortalità infantile e bassa l’aspettativa di vita.Sono tante le foto che avrei voluto scattare. A dire il vero mi sarei seduta volentieri lungo quella strada per ore, fotografando tutti coloro che passavano. Ognuno sarebbe stato un esotico protagonista di foto bellissime. Volentieri mi sarei fatta pervadere da quei ritmi antichi, senza fretta, legati alla terra. Si coltiva per avere un raccolto, si raccoglie per avere cibo. Non c’era tempo però di fermarsi. La mia mente ha quindi fotografato il più possibile in quelle 3 ore di viaggio sul suolo cambogiano. Voi vi dovrete accontentare di qualche scatto, qualitativamente molto scarso, preso al volo mentre il pulmino andava veloce e con i finestrini chiusi. Ugualmente, a mio avviso, riescono a rendere quella quiete e quel mondo arcaico legato all’agricoltura.
E’ stato un viaggio on the road molto bello, quanto quella meraviglia di Angkor Wat di cui oggi non vi parlerò perché merita un post a parte per racchiudere le tante fotografie. Un viaggio che mi sono gustata appieno complice il fatto che i bimbi si distraessero fra di loro sopportando benissimo le tante ore chiusi nel pulmino.
Tante immagini che mi resteranno sicuramente dentro.
L’ultima, quella più viva dentro di noi, poco prima di riattraversare a piedi il confine per tornare in Thailandia. Che forse ricorderanno anche i nostri bambini.
Un piccolo furgone con il cassone coperto da una gabbia. Dentro, stretti come polli, un gruppo di persone che capiamo essere clandestini o carcerati, in piedi, schiacciati gli uni contro gli altri senza spazio vitale. Con le mani aggrappate alle sbarre. Un’ espressione quasi vuota sui volti in cui si poteva cogliere solo la colpa mista alla vergogna di essere pubblicamente mostrati a tutti. Un ghigno soddisfatto sul volto del poliziotto alla guida. Il gesto quasi automatico di mio marito che prende la macchina fotografica per scattare una foto. La macchina che si ferma a mezz’aria e lui che pensa che non può infliggere loro anche questa ulteriore umiliazione. Quell’immagine non scattata rimarrà comunque impressa a fuoco nella nostra mente di occidentali liberi.
Dopo qualche minuto, il rientro in Thailandia, che ci è sembrata pulita, ordinata e moderna come non mai, tanto è il contrasto fra questi due paesi così vicini, facenti parte entrambi del sud del mondo, ma così diversi.
Uno spaccato di Cambogia impossibile da dimenticare.