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Solo quando è scorsa via l’ultima riga dell’ultima pagina di questo libro, ho ricordato perché in altre epoche della mia vita, le storie di Isabelle Allende mi avevano tanto affascinata. Per capirlo ho dovuto vincere quella maledizione che da gennaio 2011, si è avvinghiata come un polpo testardo a me togliendomi l’unico sollievo, l’unica certezza della mia vita. Quella capacità di perdersi in un libro, smarrirsi come vittima di incantesimo abbandonando le spoglie reali in qualsiasi circostanza, e immergendomi nel piacere di un libro. Con un atteggiamento critico particolarmente appuntito, dall’inizio dell’anno ho affrontato qualsiasi lettura, trovandone irritante lo stile, banale la trama, volgare l’intreccio. Tutte cose che mi hanno spinto ad abbandonare il libro suddetto, certa che fosse un’emerita schifezza. Non sembrava diverso anche in questo caso, le prime pagine erano un continuo soffermarsi ad analizzare scelte letterarie tanto scontate, trite e saccenti da rendermi impossibile continuare la lettura, ignorandone l’indignazione seccata che comportava la chiusura immediata e irreparabile del tomo.
Mi sono dovuta costringere ad andare avanti ed è stato un bene, perché non ho solo recuperato la voglia di leggere, ma ho anche capito che anche le scrittrici più amate possono non essere infallibili, che si cambia, che si cresce, soprattutto da lettore, che quello che a 13 anni poteva lasciare senza fiato dall’adorazione, a 28 è sottoposto a critica ferrea e consente di ammettere, in tutta onestà che “La casa degli spiriti” di Isabelle Allende non è un capolavoro, non è un brutto libro, non si trova neanche a metà tra un capolavoro e un brutto libro.
La prima metà è incredibilmente difficile da leggere. Il punto di vista del narratore continua a cambiare, passa da un paragrafo all’altro dalla prima alla terza persona e nonostante con lo scorrere del racconto ci si abitui o si viene assorbiti dalla trama e se ne faccia poco caso, continua a mantenersi una scelta cattiva e straniante per il lettore perché lo costringendo a tornare continuamente indietro per capire cosa è successo. Cosa è cambiato e ha interrotto il percorso che faticosamente seguiva. Faticosamente perché la storia è piena di salti, anticipazioni di eventi, rivelazioni sulla sorte dei personaggi che sono dannatamente irritanti e non danno all’intreccio una ragione d’essere. Altro aspetto odioso, le iperbole, i virtuosismi stilistici fini a se stessi e le scenette tutte fronzoli e sentimentalismo stantio, melassa pura fatta per infiocchettare i momenti amorosi (soprattutto) e renderli il più perfetti possibile. Risultato: sembrano scene tratte da un teleromanzo di quart’ordine, stracariche di clichè che inficiano l’umanità di scena e personaggi.
Tutto il libro è un racconto tratto dai quaderni di una delle protagoniste, è quindi chiaro che alcuni eventi, a cui la protagonista in questione o coloro che narrano non erano direttamente presenti, non siano sviluppati nei dettagli, ma spesso i destini di qualche personaggio o un avvenimento viene lasciato penzolare in mezzo al nulla, mentre si ripetono fino alla noia descrizioni o elementi di contorno, o anche stati d’animo già abbondantemente abbozzati. I personaggi sono spesso l’uno la caricatura dell’altro a parte Esteban Trueba che mantiene quantomeno una sorta di identità circoscritta, gli altri si ripetono come fotocopie nel corso delle generazioni. Il che credo sia in parte voluto visto che una delle conclusioni della storia è che i personaggi che si danno il cambio nelle grandi dimore in cui la scena per lo più risiede, sono parte di uno stesso destino, legati da filo che li incatena tutti gli uni agli altri, affinchè niente resti inspiegato e anche le cattive azioni e le tragedie, trovino un senso, quel significato spirituale ed esoterico che la tradizione sudamericana sostiene. D’altro canto è abbastanza noioso soprattutto nel caso delle donne che sembrano essere l’una la copia dell’altra con lo stesso carattere ribelle e lo stesso destino amoroso. In definitiva, sono l’estensione della vita o della propensione caratteriale della scrittrice che in questo non ci ha messo molta fantasia.
A sua discolpa è chiaro ed evidente il carattere autobiografico del romanzo. Credo d’altronde che tutta la storia della famiglia Trueba sia stata una scusante, un corollario di quello che voleva essere il racconto degli sconvolgimenti politici che hanno dissestato il Cile nel secolo scorso. Soprattutto del golpe di Pinochet del’73, che ha vissuto in prima persona l’autrice Il che si sente dannatamente nelle ultime 60 pagine. Vale la pena leggere quel libro solo per queste righe finali. Non solo per la ricostruzione storica addolcita dal romanzato, ma per la potenza delle argomentazione, la vivacità concreta degli animi, dei pensieri, dello stato globale del paese e delle paure più intime di coloro che hanno vissuto la dittatura o che sono state vittime di questa. E poi il bisogno totalmente umano di ribellarsi, la rivoluzione come unica arma, la giustizia, la libertà. Questi temi e il modo in cui la Allende te li sbatte in faccia come fossero scontati. E il sostrato onirico con cui la vita viene interpretata, come fosse un libro da scrivere/già scritto in cui tutto ha un valore, tutti hanno valore anche chi apparentemente è inutile, anche le porte che si muovono da sole, perché dietro c’è uno spirito che le fa dondolare. E la solitudine che non esiste, e la morte che è solo un passaggio e il tempo che è solo una parola. Questa dimensione che riesce a costruire la Allende è eredità della cultura che l’ha cresciuta e di autori che hanno forgiato quel realismo magico che mi ispira di brutto. E che continuerà a farmi amare questi libri, nonostante le loro pecche stilistiche, nonostante non abbia più tredici anni, nonostante le stelline su anobii non saranno più di tre. Nonostante da troppo tempo, io, abbia perso la capacità di vivere in una casa degli spiriti.
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