La casa dell’impiccato

Da Melusina @melusina_light

Un raccontino modesto, così, per rompere il silenzio dopo tre mesi.
E poi, piuttosto che niente, meglio piuttosto.

Paul Cezanne: La casa dell’impiccato, 1873

La casa dei cugini, me la ricordavo diversa.
Le estati in cui venivamo qui in vacanza era ancora una casa abbastanza nuova, la più nuova del paese, costruita apposta per ospitarvi una famiglia che si preannunciava numerosa, e lo divenne. Cinque figli, erano arrivati, e le grandi stanze spoglie si erano riempite di voci, viavai, profumo di pane e sapone di marsiglia, mentre nel cortile a ghiaia trillavano i campanelli delle biciclette e innumerevoli lenzuola e calzettoni asciugavano stesi sfiorando il rosmarino.
All’interno un unico specchio, nel bagno senza riscaldamento, e così piccolo e alto che sì e no serviva al padre per farsi la barba col pennello all’alba. Sulle pareti nessun quadro, tranne i due ritratti fotografici di fine ottocento dei bisnonni, col rametto d’olivo rinnovato a ogni Pasqua. Nelle stanze, il minimo necessario: un letto per ognuno, un cassettone, una sedia; mancavano del tutto le cose superflue, libri e giornali compresi, e qualunque forma di ornamento. Di tende in particolare non c’era bisogno perché la casa sorgeva distante da ogni altra abitazione, circondata da terra incolta che confinava con la ferrovia, in fondo a una stradina sterrata nuova e poco utilizzata.
Nessuno della famiglia conosceva le esigenze dell’estetica e il piacere del superfluo. Erano gente onesta, senza vanità, tutta lavoro e affetti familiari, sereni nell’economizzare ma non tanto per avarizia quanto per rispetto di un vangelo di campagna, all’antica. I ragazzini crescevano vivaci il giusto ma obbedienti ancora di più. Una famiglia modello.
Poi arrivò l’Angelo del Signore con la sua spada spietata, e li divise. Si prese la madre fra i tormenti di un ospedale senza compassione, assistette beffardo alla fuga dei figli come formiche stanate dal loro castello sotterraneo, riempì di nebbia la mente del padre, più orfano di tutti.
La maggiore prese il treno per la città con la debole scusa degli studi, e non vide quando una burrasca di fine agosto affogò l’orto e la grandine crivellò le galline, disperdendone i resti in un rigagnolo schiumoso lungo lo sterrato. Pochi anni dopo la troviamo a pulire le latrine al Cottolengo, e di qualunque sogno avesse avuto nessuno seppe più niente.
La seconda, quando ebbe finito di ramazzare le frasche e il marciume del nubifragio, indossò un vestito buono e andò in bicicletta a chiedere lavoro in fabbrica nel paese vicino. Sei mesi dopo era incinta di uno sposato, e insieme se ne andarono altrove, a fare una vita di vergogna dove non li conoscessero.
Le altre due sorelle per anni si contesero aspramente il diritto di essere la prossima a lasciare la famiglia; ci riuscì quella che, per dispetto, si prese un fidanzato del meridione che la sposò in sacrestia all’alba e la portò a vivere così lontano che ci si dimenticò di loro.
L’ultima femmina era stata brava a scuola, e le bruciava vedersi avvizzire in un paese di beghine. Ma qualcuno doveva pur occuparsi del padre, prosciugato dalla vedovanza e in balia della debolezza di un carattere che si era sempre nascosto dietro le fiere sottane della moglie.
A Gualtiero, il minore, l’unico maschio, nessuno chiese nulla. Dapprima perché era un bambino, e in seguito per orgoglio, poiché se a lui non passava neanche per la testa di prendere in mano le redini della famiglia e sostituirsi al padre inutile, non erano certo le sorelle maggiori e tutte donne a volersi umiliare nello spronare a farlo. Ciascuna di loro aveva le doti per essere una matriarca, ereditate dalla madre, ma di lei non avevano la purezza d’animo, e per tutta la vita coltivarono segretamente il rancore per l’ingiustizia che gliela aveva tolta quando ancora c’era bisogno di lei.
Così Gualtiero, col suo viso paffuto da marmocchio ben nutrito e un corpo che andava facendosi piacevolmente robusto, terminò di crescere e si fece uomo sempre ignorando il senso della responsabilità, anche quando lavorò prima come meccanico, poi come camionista, e perfino quando sposò quella ragazzetta semplice e vivace di Fratta con cui ebbe un matrimonio breve e tre figlioletti biondini dei quali entrambi non sapevano bene che fare.
Il padre non si accorse nemmeno di essere diventato nonno, come non si era reso conto di avere perduto per sempre tre delle figlie e di aver ridotto in schiavitù l’ultima rimasta. Morì di nulla, come se il nulla in cui aveva vegetato dopo la perdita della moglie lo avesse definitivamente inglobato. E al funerale vennero solo poche donne di pietà perché in paese lo avevano dato per morto molti anni prima.
Solo allora se ne andò anche Ernestina, ma non troppo lontano perché per lei era ormai tardi. Rilevò un negozietto all’angolo della piazza, con camera e cucina al piano di sopra, e vi vendeva fili, bottoni, colletti e scampoli di stoffa. Gualtiero era tornato col suo fagotto di fallimenti, e nella vecchia casa conduceva una vita da rinnegato, barricandosi tra le rovine di famiglia fino a diventare egli stesso un topo di legnaia.
L’hanno poi trovato impiccato nella rimessa, con un cane afflitto che rosicchiava una scarpa poco più in là. Dicono che ormai beveva troppo e troppo male per tenersi un lavoro, qualunque lavoro. Altri pensano che sia stato per il dolore di non poter più vedere i suoi figli dopo la diffida del tribunale. O entrambe le cose. Anche in lui doveva aver albergato il germe negativo di suo padre, quella stessa vocazione all’inettitudine e alla mediocrità.

Entro in casa varcando il cancello che non c’è più. Era stato il loro orgoglio in un paese dove non esistevano staccionate e recinzioni, e dove si accedeva alle aie delle grandi case coloniche attraverso porticine ritagliate nei vasti portoni carrai. In mezzo alla ghiaia del cortile, secchi e tinozze di plastica sfondati, copertoni lisi di camion, rottami di ferro. Le tapparelle, altro orgoglio quando tutte le altre finestre del paese erano ancora riparate da imposte di legno scrostato, pendono a metà, sbilenche e scardinate. Quelle che sembrano tende di velo antico dietro i vetri sono ricami complessi e sovrapposti di ragnatele. Nelle camere in penombra, le reti metalliche dei letti arrugginiscono, e ovunque immondizia, bottiglie, lattine, pile di giornali, stracci, imbottiture sfondate, muffe e sudiciume sui muri, i segni di un falò in mezzo al pavimento del salotto. Per di qua è passata la disperazione, e non ha trovato ostacoli. Come il nubifragio che aveva divelto il pollaio e sterminato l’orto, quando la terra sulla tomba della madre era ancora fresca.

Ernestina forse mi aspettava, si è vestita in un certo modo, goffamente distinto, che me lo fa supporre. I celebri riccioli di famiglia, con quel loro inconfondibile colore di miele scuro, si sono però trasformati in un mazzo di pannocchie riarse, e poi quegli occhiali, mio Dio, quelle lenti grandi e pesantemente ambrate, dietro le quali lo sguardo sembra al tempo stesso sfuggente e maligno. Appoggia le mani a pugno sul vetro rigato del banco in un atteggiamento aggressivo, e alle sue spalle gli scaffali sguarniti espongono la miseria dell’abbandono. In vetrina ho visto qualche bavaglino e dei gomitoli di lana, ma soprattutto uno strato di polvere e falene seccate.
“Sei venuta a vedere come ci siamo ridotti? – mi apostrofa, avvelenata – Guarda, guarda pure, guarda tutto finché puoi, che io ormai non ci vedo quasi più”.
E con una mano fa un gesto rabbioso verso gli occhiali giallastri, indicandomi così l’ultima malasorte con una specie di disgraziata fierezza.
“La casa la vendiamo, sì. Se solo qualcuno la volesse, perché per ora nessuno si è fatto avanti. Forse dovremmo buttarla giù e farla finita, così magari almeno la terra farebbe gola a qualcuno”.
Mi butta là frasi così, dure, risposte a domande che si aspettava da me ma che io non le faccio. In negozio non entra nessuno, mentre mi riassume gli anni dello sfacelo come se sputasse fuori rospi, o peccati vergognosi.
“Dodici anni che non ci parlavamo. Del resto lui non parlava con nessuno. Con i cani, forse. I cani! In quella casa non c’era né telefono né acqua calda, però lui  si teneva i cani, e scommetto che mangiavano meglio di lui. Adesso se li sono portati via, è venuto uno del Comune a prenderli”.
Mi dice anche:
“Voi non potete capire. Voi di città. Cosa ne sapete voi?”
“Questo non puoi dirlo. Siamo di famiglia, Ernestina, siamo addolorati anche noi, davvero”.
E vorrei aggiungere che neanche io ho avuto una vita facile, ma sarebbe vigliacco, così mi tengo dentro tutta questa desolazione, la sua e la mia.
“Compratela voi, la casa. Comprala tu. Perché non la compri? Vale poco, puoi permettertela di sicuro – attacca Ernestina, ed è una sfida.
Ma poi fa un gesto di disgusto:
“No no, a  voi di città non la venderemmo mai. Piuttosto la buttiamo giù e morta là. Tanto io presto me ne vado, ho fatto domanda all’Istituto per i Ciechi, tra poco non potrò più arrangiarmi da sola”.
L’ultima cosa che mi dice prima che esca ha tuttavia qualcosa di conciliante:
“Che vuoi farci, è andata così”.

Fuori, in piazza, una coppia di turisti fotografa la meridiana sulla pieve, mentre i vecchi già giocano a carte ai tavolini del bar sotto i portici e l’ombra del tramonto taglia in due la facciata del Municipio.
La mia macchina è posteggiata lì sotto. Devo solo recidere alcune radici e poi infilarmi in autostrada con Glenn Gould in sottofondo.


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