La lingua di fuoco impiegò meno di un’ora a propagarsi dai piedi alla cresta del monte. I pompieri, a cavallo di un’autobotte, calzarono i guanti e si misero al lavoro per spegnere l’incendio. Solo nel tardo pomeriggio, quando le fiamme erano ormai state domate, fu trovato il collo di una bottiglia incendiaria nel letto del fiume.
Per parlare di quanto la retorica sia presente, in modo più o meno consapevole, nella quasi totalità dei nostri discorsi, ho voluto iniziare con un esempio. Premetto da subito che non si è badato troppo alla forma, nell’inventare la sequenza di frasi in questione e che l’esempio non avanza, pertanto, alcuna velleità di tipo artistico. Al contrario, queste poche righe rappresentano piuttosto fedelmente un livello “standard” di comunicazione ordinaria, che si potrebbe cioè ritrovare in una conversazione telefonica o, magari, tra le pagine di un quotidiano di cronaca locale. In una parola, è perfettamente utile al nostro scopo.
Proprio qui, infatti, in una manciata di proposizioni che riguardano l’episodio di un incendio sui generis, si annidano almeno otto catacresi, segnalate dal corsivo. Tradotto: in almeno otto occasioni si sta usando un procedimento retorico, conosciuto appunto come catacresi, che consiste nel «ricorrere a un neologismo o all’uso estensivo di un termine già esistente nella lingua […] quando si deve designare un certo oggetto o nozione per cui [la medesima] lingua non dispone di un vocabolo specifico». In altre parole, la catacresi (dal lat. catachresis, gr. κατ-χρησις, propr. «abuso») «è un uso ‘deviato’, un abuso» di parole che designerebbero propriamente qualcosa di diverso da ciò che vengono a denotare in una parola o locuzione usata estensivamente. Essa consiste, dunque, in una risorsa utile nel caso della cosiddetta inopia (mancanza, carenza) lessicale, e «risponde a un’esigenza di economia: si usufruisce del già esistente anziché introdurre neoformazioni» (Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani).
Nella fattispecie, la “lingua” di fuoco, i “piedi” del monte, il “collo” della bottiglia rappresentano, all’interno di queste locuzioni o modi di dire ormai consolidati, parti di oggetti o luoghi che non corrispondono al significato primario dei termini — in questo caso tutti appartenenti al campo semantico e lessicale del “corpo umano” —, ma, piuttosto, a un significato secondo, a «una specie di connotazione originaria, diventata denotazione nell’uso» (Tommaso Casanova).
«Data una catacresi come la gamba del tavolo, solo se la si considera come se fosse stata inventata per la prima volta si può capire perché […] l’inventore della catacresi abbia scelto gambe piuttosto che braccia. Solo riscoprendo così la catacresi siamo indotti, contro ogni nostro automatismo linguistico precedente, a vedere una tavola umanizzata. Pertanto occorre avvicinarsi a una metafora o a un enunciato metaforico partendo dal principio che esista un grado zero del linguaggio — rispetto al quale anche la catacresi più trita risulti felicemente deviante» (Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani).
Una catacresi, infatti, trattandosi nella maggior parte dei casi di un’antica (e ormai “spenta”) metafora o metonimia, può essere sempre smascherata e rivitalizzata (scrive la Garavelli) «in poesia, nei giochi di parole, nel racconto fantastico (favole in cui i denti del pettine mordono, il cane del fucile abbaia, lo zoccolo delle pareti scalcia) […] e perfino in convenzioni culturali, mode, atteggiamenti (si pensi, ad esempio, alla pruderie vittoriana, disturbata dalla vista delle gambe ‘nude’ del tavolo…)».
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