di Paolo Di Stefano
Sellerio editore Palermo
La storia:
Marcinelle, Belgio, 8 agosto 1956: nel distretto carbonifero di Charleroi 136 immigrati italiani cadono vittime di un banale incidente che provoca un incendio alla profondità di 975 metri. La sotto resteranno molti cadaveri, uccisi soprattutto dall’imprevidenza, dalla mancanza di misure protettive e dalla disorganizzazione dei soccorsi. Fu una“catasfròfa”(come era definita nell’ espressione metà dialetto metà francese degli emigrati) che al di là delle ritualità delle celebrazioni è poi caduta in un colpevole e tragico oblio.
In questo romanzo-verità, l’autore ne fa la ricostruzione, a mezzo secolo di distanza; la racconta, e riporta altresì alla memoria l’epica dell’emigrazione italiana.
Fra molteplici testimonianze e racconti, affiora nei ricordi delle vittime sopravvissute ( vecchi minatori superstiti, amici, familiari, soprattutto i bambini di allora) la storia tragica di quell’8 agosto.
Le loro voci portano il lettore nei cunicoli arroventati della miniera incendiata, negli anfratti dove veniva cercato disperatamente un rifugio, fra i pianti delle famiglie, nel frastuono dei soccorsi ;e le frasi sgomente delle prime dichiarazioni lo conducono lì intorno, nelle baracche e le botteghe dove si svolgeva la vita interrotta. E queste testimonianze scorrono poi avanti e indietro nel tempo rispetto al presente della tragedia, riportano ai paesi d’origine dei protagonisti, tra poesia del ricordo e miserie primitive, dando prova dell’incredibile assenza dello Stato italiano (non fu visto un presidente, non un ministro), della parzialità successiva, dell’inerzia della giustizia, e infine del solitario, silenzioso e fiero riadattamento alla vita straniera di chi rimase.
L’autore stesso dice:
«Sono facce italiane, ma tutto il resto è inequivocabilmente Belgio. Le case di mattoni rossi o grigi, i tetti a punta, le scalette per arrivare al portone, le finestre a bovindo, i bistrot, le insegne, la pioggia. Piove su Marcinelle, distretto minerario di Charleroi, anche in agosto. Quel giorno non pioveva. La ricordano come una limpidissima giornata di sole. Ma verso le otto del mattino nuvole di fumo denso salirono dai pozzi del Bois du Cazier e le donne lasciarono le baracche, presero per mano i bambini per precipitarsi al cancello della miniera con l’angoscia negli occhi, nel cuore, nelle gambe… Non potevano sapere che le condizioni di insicurezza e abbandono là sotto avrebbero trasformato un semplice equivoco in una delle stragi più gravi della storia mineraria. Non sapevano che dei 274 lavoratori scesi per iniziare il turno del mattino, 262 (di cui 136 italiani) non sarebbero usciti vivi. Non sapevano che le operazioni di soccorso erano già nettamente in ritardo. Non sapevano che, dopo quasi cinque anni, un giudice a Bruxelles avrebbe decretato solo una pena minima per il direttore dei lavori, nient’altro. Tutto questo l’avrebbero vissuto e saputo poco a poco. Tanti racconti che partono dalla povertà dei paesi d’origine e arrivano a quel mercoledì 8 agosto 1956 col suo strascico di dolore e rabbia. Voci che parlano lingue simili e diverse, colorate di tinte dialettali e francesi, parole familiari e gergo di miniera. Ho ascoltato quelle voci. Sono andato a Marcinelle, a Pescara, a Manoppello, ho incontrato i testimoni, ho indossato una divisa e un caschetto da minatore per calarmi nei pozzi profondi anche oltre mille metri del Bois du Cazier per farmi soccorritore cinquant’anni dopo e portare in superficie quel che resta di tanto dolore individuale e collettivo. Non corpi morti cui assegnare un loculo nel cimitero della storia, ma voci che raccontano vite comunque vissute, anche a futura memoria. Perché la loro memoria abbia un futuro.»
Paolo De Stefano, è nato ad Avola (Siracusa) nel 1956: E’ inviato del Corriere della Sera. Ha pubblicato in chieste e romanzi, tra cui Baci da non ripetere, Premio Comisso; Tutti contenti, Sueperpremio Vittorini e Flaiano, Nel cuore che ti cerca, Premio Campiello e Brancati.
Alcune di quelle voci:
-“Noi italiani abbiamo lavorato come schiavi, in quanto che quello che interessava nella miniera era la mina e il carbone non la persona umana. Vere bestie, se pensate che dopo la catastròfa solo il direttore dei lavori, Monsieur Calicis, fu condannato e gli altri tutti liberi come uccelli”.
-“La gioventù nostra è stata venduta dal governo e noi ci facevamo comprare la nostra gioventù perche avevamo fame. Io poi avevo la buonanima del padre mio che teneva le pecore in campagna e per questo portavo troppo odio alla campagna, alle pecore, alla mungitura e alla ricotta: erano il terrore mio, ne avevo viste troppe, di pecore…” .
-“Lui ha arrivato quattr’anni prima a Marcinelle, il gennaio ’49, che non ci canoscevamo nemmeno. Ci abbbiamo canosciuto dopo quattr’anni quando ha tornato al paese in ferie, ci abbiamo visto e sposati il 3 maggio del 1953. Prima di parti’ Ottavio ci aveva un pezzettino di terra e lavorava col padre, all’epoca ci steva quello da fare, coltivare un po’ di grane soprattutto. Pure li miei genitori facevano li contadini. Come che ci siamo sposati, un mesetto dopo ho fatto la domanda e so’ partita, allora ci voleva un romanzo per parti’, era ‘na cosa lunga. Il viaggio è stato bello, era la prima volta che uscivo, mio padre e mia madre m’hanno accompagnata fino a Milano. Arrivata a Charleroi, come impressione non m’ha fatto ‘na cattiva impressione, solo dopo ho cominciato a vede’ le cose che non andava, perché non per tutti era uguale come trattamento e poi non mi piaceva di sta’ lontana. Ma questo è stato il destino della nostra famiglia, dove tutti stavano fuori: un fratello in Australia, uno in Argentina, una sorella in Germania e io in Belgio. Vedete un po’ come stavamo gli italiani! Oggi tante cose si buttano dietro le spalle … ma gli italiani eravamo questo, povertà e emigrazione.
Piano piano però ci abbiamo abituato. 11 29 dicembre 1954 è nato mio figlio Carlo, e quando non stavamo a casa come diversivo si andava in giro, si usciva col bambino, si faceva ‘na passeggiata per fare la spesa al mercato di Charleroi, pane e latte no perchè ce lo distribuivano a porta a porta tutte le mattine. Insomma si steva bene. Andare a balla’ mai, a ballare ci so’ andata dopo, quando so’ tornata qua che mio marito era già morto”.
-“Vi ricordate? mo non voglio più parla’, non voglio ricorda’. E ‘na cosa mia, che rimane mia, un dolore mio. Oramai per me è na cosa mia, lasciateme tira’ avanti a campa’ senza ricordi ». Chi è che vuole dimenticare i ricordi?” E’ il minatore-fruttivendolo Geremia, i cui due fratelli, Camillo e Rocco, sono stati i primi cadaveri recuperati, a 765 metri, il giorno stesso della catastrofe. Oggi, a 73 anni, non ne vuole più sapere. Troppe delusioni, troppi equivoci. Nel 2008 da Manoppello, dove è nato e dove ha fatto ritorno nell’1972, è stato invitato a Marcinelle per una celebrazione ufficiale, ma ha raccolto solo rabbia: si è pagato il viaggio di tasca propria ed è stato ignorato dai suoi ospiti “me so’ dovuto accolla’ le spese, vantaggi non ne voglio, ma almeno rispetto … ». E’ amareggiato, arrabbiato, deluso, perché non vuole parlare. Eppure c’era un tempo in cui Geremia parlava, raccontava dall’inizio alla fine, davanti a una telecamera, tutto ciò che ha vissuto da quel giorno. Come la signora Lucia, il cui marito Eduardo, anche lui di Manoppello, era amico di Geremia e dei suoi fratelli. «Compagni di sventura, compagni di fame ».
-“Insomma, mio padre muore lì a 1035 metri sottoterra e quindici giorni prima nasco io al paese. Mia madre a un certo punto riceve un milione con cui si èfatta la casa, poi gli hanno richiesto indietro il milione e gli hanno pure pignorato la casa. C’è una lettera del Ministero del Lavoro del 17 dicembre 1956 dove mi dicono che mi donavano un milione come orfano. Ma potevo ritirarlo solo alla maggiore età: così se prima ci prendevo una casa come aveva fatto mia madre, nel ’77 ho potuto compra’ niente più che una macchina e ho preso una Dyane 6 “.
-“Hanno portato le salme ognuna al suo paese. Io stavo nascendo. Mentre portavano mio padre al cimitero, mia madre, che non aveva potuto vederlo in Belgio quand’è morto, non ha assistito al funerale al paese, perché stava partorendo. Nascevo io. E mia nonna, che aveva due figli morti, la mattina dei funerali, quando ha saputo delle doglie di mamma, ha lasciato le bare dei suoi figli e
l’ha voluta assistere al parto. Tra la morte e la vita, ha deciso per la vita. Mamma aveva 18 anni e nonna, che era sua suocera, aveva 48 anni. Diceva: «Non lo so com’ha fatto Gesù Cristo a famme campa’». Forse in quel momento a farla sopravvivere è stato un impulso, voglio pensare che anche la mia nascita ha contribuito. Nel giro di qualche mese nonna ha vista morire due figli, la mamma e il padre. Che storia! E che forza! Sua madre è morta dopo quindici giorni che sana nato io.
Nonna Gemma è stata una donna eccezionale con una storia a parte. Ci ha lasciato un enorme patrimonio morale, niente soldi, ma ugualmente una grande eredità.
Raccontava la sua povertà con fierezza e senza mai vergogna, senza mai nascondere la modestia della sua famiglia. E’ stata un personaggio esemplare della mia vita: ci ha lasciato il senso della dignità. Io quando dico che mio padre è stato minatore in Belgio lo dico con orgoglio, e certi personaggi odierni della politica e delle istituzioni mi piacerebbe che avessero la stessa dignità. Questo ricordo della nonna mi dà una forza incredibile. Lei raccontava che non è mai scesa a compromessi, neanche nei momenti più tristi e più drammatici, è sempre andata avanti a testa alta, da analfabeta intelligentissima com’ era. Oggi le ragazze giovani per l’aspirazione di diventare chissà chi, accettano tutto”.
-“Noi non abbiamo mai visto niente. Mi viene da ridere quando qualcuno dice che le vedove di Marcinelle si erano arricchite. Ogni tanto arrivava una lettera per noi orfanelli, ci dicevano di andare a ritirare un pacco a Pescara, al mattino ci caricavano sull’ autobus tutte le famiglie, si stava ad aspettare con l’ ansia di ricevere qualcosa e alla fine sa che cosa c’ era nel pacco? Qualche giocattolino.
Mi ricordo una volta, ci chiamarono perché una ditta emiliana aveva mandato delle forme di parmigiano reggiano e dei pacchi di pasta, aspettammo non so quanto per essere trattati come morti di fame: eravamo arrivati a Pescara con grandi speranze e tornammo a casa quasi a mani vuote”.
La catastròfa – Marcinelle 8 agosto 1956