Nei giorni scorsi le storie di bullismo si sono susseguite da Modena a Napoli a Matera a Roma. A Modena sono stati arrestati tre minori che minacciavano con i coltelli i coetanei davanti le scuole per derubarli. A Napoli quindicenni e tredicenni hanno devastato una scuola media svuotando gli estintori e allagando i corridoi. A Matera degli alunni esclusi dalla gita di classe hanno danneggiato la scuola distruggendo le aule e rompendo tutti i distributori di bevande. E per concludere a Roma per saltare le lezioni nel liceo Avogadro hanno pensato ad un’ invasione di vermi. In questo caso i carabinieri sono riusciti ad intervenire in tempo. I ragazzi che tentavano di entrare con buste con quasi dieci chili di bigattini sono stati fermati. Insomma, quattro storie in un giorno. Ma colpiscono un po’ le reazioni degli adulti che sembrano avere sempre più timore ad intervenire con azioni educative.
La professoressa che ha messo una nota e si ritrova la mano stritolata ha perdonato con un abbraccio e non sporgerà denuncia. La preside di Salò non aveva denunciato il caso della ragazza che aveva subito in classe le molestie dei compagni.
Si ha paura di dare delle responsabilità è un segnale che può stimolare e non sedare le bravate. La paura non è mai una buona consigliera. Non denunciare vuol dire non poter sanzionare e quindi non far riparare i danni: buonismo diseducativo. Sapere di farla franca mette in moto un meccanismo pericolosissimo per i ragazzi. Nell’adolescenza ci si sente fragilissimi ma contestualmente onnipotenti, il pensare che si può agire senza essere fermati significa lasciare i ragazzi a se stessi, mentre, particolarmente in questa età, i ragazzi dovrebbero sentire la presenza degli adulti come portatrice di valori e indicazioni significative.
A tale proposito ho condiviso in parte l’articolo di Galli della Loggia “Buonismo e bulli, a scuola“ (nel mensile Style del Corriere della sera del 1 maggio 2010). Anche lui commenta l’anomalo comportamento della preside che non ha denunciato i compagni della ragazza della scuola media di Salo’. Riporta anche il commento sconcertante della preside che si chiedeva: a cosa servisse la denuncia e la sanzione, “spiegando oltretutto di essere una persona che ha fatto un percorso”, lasciando quindi intendere, la preside, di avere una formazione consona a capire questi problemi. E aggiunge, questa bella gioventù è il prodotto della vacua sollecitudine pedagogica per l’obbligatoria comprensione per tutto ciò che sa di giovane, “ingredienti dell’ideologia dominante del Paese dopo la rottura dei vecchi costumi.” E continua indicando i decreti delegati e le classi concepite come luoghi di socializzazione, dove la disciplina ha perso il suo significato ed è stata concepita “roba da lager”, come la riprova di un insensato piano pedagogico. Questi giovani dice Galli della Loggia sono figli del modo superficiale e distruttivo in cui in Italia è stata concepita la modernità democratica. Quindi ora inneggiare ad un contenuto di valori fa sembrare reazionari.
Condivido lo sconcerto e sono d’accordo nel dire che oggi basta accennare ad educazione, regole e disciplina che si viene visti come repressivi reazionari; ma non sono d’accordo sul ruolo che secondo Galli della Loggia ha avuto la pedagogia. Non è l’essere stati democratici nella scuola, o aver portato i genitori con i decreti delegati che può averla delegittimata. Anzi i decreti delegati informavano e responsabilizzavano i genitori e gli insegnanti incitando entrambi ad un’alleanza educativa che doveva essere foriera del patto intergenerazionale. Non può essere stata l’idea di alleanza scuola-famiglia che ha portato la distruzione degli ideali e dei valori. E non sono d’accordo neanche quando parla di “pedagogia sollecita a giustificare tutti i comportamenti dei giovani.” Va invece ricordato che la giustificazione dei comportamenti lassivi e non rispettosi delle regole, la scomparsa delle sanzioni, la disciplina confusa con l’autoritarismo e quindi eliminata, sono idee figlie della psicologia e non della pedagogia. La psicologia ha fatto ahimè, in questi anni, da padrona nella scuola, e non solo, invadendo il campo educativo e sostituendosi all’educazione, all’istruzione e alla formazione. Nella scuola, la psicologia deve comparire o come utile bagaglio personale o per casi problematici o come corollario preventivo; ma assolutamente non può e non deve sostituire la pedagogia che vuol dire: saper creare la didattica e saper intervenire con azioni educative che potenziano e affiancano la conoscenza dei ragazzi nella quale il sapere diviene anche saper fare e saper essere. Seminare il terrore del “trauma” fra insegnanti e genitori ha portato ad abbassare la soglia del rispetto delle regole. Esse sono state viste come un impaccio alla crescita dei ragazzi e alla libertà degli stessi, che ora sono finiti ad essere prigionieri, piuttosto, dell’assenza di regole. Asociali e intolleranti alle frustrazioni anche minime presenti nella crescita.
E’ lì che è iniziato l’equivoco, dove non si è più capito che l’autoritarismo ancora sicuramente presente fra alcuni insegnanti, non andava combattuto mettendo la scuola in scacco della psicologia facendola divenire timorosa di creare danni psicologici, lì dove si chiedeva solo autorevolezza e rispetto delle regole. La scuola ha snaturato il suo compito per seguire i diktat psicologici. Ha sostituito all’educare l’assistere, e ad una didattica pensata e curata per rispondere alle diverse specificità dei ragazzi ha risposto con una didattica facilitata per non creare traumi e difficoltà agli alunni. In tal modo si è realizzata una didattica piatta e poco interessante, una scuola assistenziale e insipida che non ha saputo rispondere a nessuna domanda né relazionale né di contenuto. Una scuola poco interessante che ha allontanato i ragazzi.
Alla normale educazione e al rispetto fra professori e insegnanti si è sostituito un finto rapporto amichevole che ha coperto spesso la paura dell’insegnante nei confronti dei ragazzi e dei genitori. Se i ragazzi trovano il sapere interessante, speciale e significativo si entusiasmano e non hanno bisogno di essere distruttivi. Se esso è accompagnato ad una buona relazione crescono. Spesso i ragazzi raccontano che hanno fatto gesti insulsi per noia, per mancanza di contenuti. Sono la scuola e la famiglia che insegnano a trovare il senso, a dare contenuti, significati. Poi ognuno scoprirà i suoi. E’ stata data meno importanza alla conoscenza e non la si è più pensata come fondante della relazione educativa. Essa la sostanzia, la rende specifica di quel rapporto al quale aggiunge significatività. In questi anni i ragazzi si sono educati da soli. Non solo, si sono educati attraverso internet e hanno subito la solitudine nella quale li hanno lasciati i genitori e gli insegnanti.
Ora questi ragazzi cresciuti soli con le loro regole continuano a decidere da soli, non hanno bisogno degli adulti. Sono ragazzi che si riconoscono nel branco. La loro fragilità si evidenzia con quanto bisogno hanno di apparire anche attraverso questi atti di violenza che li fanno sentire popolari, speciali. Non possono sentirsi banali devono essere portatori di qualcosa, di significati, che li mettano in mostra, soprattutto se in negativo. Esercitando il male essi sentono di esistere, di incidere, soprattutto quando sono in gruppo. E’ una società che ha educato i propri figli ad un eccesivo senso di sé, al culto della persona a scapito di un riconoscimento dell’altro, che è visto marginale e solo in modo funzionale. C’è una rincorsa al consenso. Creare consenso e cercarlo ad ogni costo. Giungono ad utilizzare qualunque mezzo pur di acquisirlo. Avere consenso oggi più che mai vuol dire avere potere e i ragazzi sono stati veloci ad intuirlo. Nella ricerca del potere si dà il peggio. Pur di essere il capo si fa di tutto.