Magazine Lavoro
Sono tanti e diversi gli occhi puntati su questo Congresso della Cgil. Tutti, (amici, simpatizzanti, nemici), sono disposti, crediamo, a condividere l’imperativo “cambiamento” fatto proprio da Susanna Camusso con tanta energia. Le diversità possono però apparire subito chiare se ci si sofferma su quale tipo di cambiamento adottare. I giovani, costretti a ballare da un mini job all’altro, ad esempio, vorrebbero un sindacato che cambia il suo modo di essere nei luoghi di lavoro. Vorrebbero un sindacato “moderno” perché sa tener conto delle novità presenti nel mondo del lavoro e sa contrattare anche il loro futuro. Vorrebbero che quella proposta di “contrattazione inclusiva” non rimanesse sulla carta ma diventasse una regola sorretta da sostegni di ogni genere, coinvolgendo davvero strutture riottose.
Altre istanze - come testimoniano certe sortite governative e i commenti di molti opinionisti - vorrebbero che, per cambiare, il sindacato fosse solo capace di dire “si” a proposte che continuano lungo il tracciato della precarietà cara al centro-destra. Un sindacato moderno, per loro, è un sindacato succube, incapace di autonomia.
I confronti potrebbero continuare. Così milioni di lavoratori con occupazioni traballanti, oppure disoccupati ed esodati, oppure pensionati, sperano che la Cgil cambi, non accontentandosi del tradizionale impegno delle categorie (salari, orari), ma impugnando sul serio il proprio complesso “Piano del lavoro”. Un Piano da non lasciare solo ai sapienti confronti tra economisti, ma da tradurre in mobilitazioni e risultati sui territori. Un Piano che intrecci le mobilitazioni delle diverse categorie, dai metalmeccanici, agli edili, al pubblico impiego, agli anziani colpiti dalla cosiddetta riforma Fornero. Un modo per rilanciare dal basso quella “concertazione” che in alto si vuole abolire ma che in questi giorni è in qualche modo vissuta nei dibattiti sul lavoro promossi come antipasto congressuale.
L’istanza che viene, in definitiva, dal mondo del lavoro non appare nemmeno quella di tramutare i leader sindacali in tanti “capi ultras” capaci di farsi ascoltare. Anche se è forse bene ricordare come il massimo di autorevolezza il sindacato la conquistò, nel passato, quando era unito ed era al massimo della sua capacità di conquista e di mobilitazione (oggi offuscata dalla pesantezza della crisi). Quando era capace, altresì, di suscitare livelli di vera partecipazione non basata solo su ricorsi referendari, atti solo a pronunciare dei Si o dei No, ma non a suggerire pareri e saperi.
L’istanza complessiva, in definitiva, è quella di cambiare il sindacato per cambiare il paese, facendo contare il valore delle proposte. E facendo capire al giovane leader Matteo Renzi che pure del cambiamento fa la propria idea-forza, come certi atteggiamenti, a cominciare dal rifiuto di una sua presenza all’Assise sindacale, nuocciano soprattutto alle sue stesse ambizioni. Un leader forte, autorevole, non avrebbe esitato a far sentire la propria voce, i propri argomenti a una platea di donne e di uomini che non hanno votato le proprie vite per inseguire ideali meschini. Non hanno scelto un “mestiere”, soprattutto in questi tempi bui, altamente gratificante. Possono essere un antidoto all’esplosione di guerre disperate. Meriterebbero un “grazie”, non un voltar le spalle.
Bruno Ugolini
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