Martedì 22 maggio, presso la libreria Kolibri di Bolzano (ore 19.00), Waltraud Mittich presenterà assieme allo storico Carlo Romeo il suo nuovo libro “Du bist auch immer das Gerede über dich” (Raetia Verlag). Si tratta di un testo, composto in felice equilibrio tra scrittura documentaristica e prosa poetica, che rievoca la figura del partigiano sudtirolese Hans Egarter. Abbiamo rivolto alcune domande all’autrice.
La sua opera si apre con una citazione tratta da “Essere e Tempo” di Heidegger nella quale si afferma che il termine “Gerede” (chiacchiera) non è inteso in senso spregiativo. Ci può chiarire quale sarebbe il contenuto positivo del termine e in che modo esso diventa importante per la comprensione del suo libro?
Sì, nel linguaggio di Heidegger “chiacchiera” indica un fenomeno positivo, inerente il discorso quotidiano che poi costituisce la dimensione esistenziale del comprendere e dell’interpretare. Anche per quanto riguarda il mio libro la chiacchiera assume un’importanza assai rilevante. Innanzitutto è la narratrice ad essere esposta al flusso di chiacchiere che circondano il protagonista: su molti periodi della vita di Hans Egarter possediamo infatti solo notizie sporadiche. Sarà compito della ricerca storica portarle alla luce e il mio libro in fondo coltiva la speranza di poter contribuire a spronarla. Anche per questo la chiacchiera su Egarter è un fatto positivo. Poi sono stati i suoi nemici a spargere maldicenze di ogni tipo su quest’uomo. Non si tratta ovviamente di riscontri gradevoli, però li ritengo ugualmente utili per riportare Egarter al centro del discorso o comunque per tornare a parlarne. La chiacchiera della narratrice ha dunque uno scopo conoscitivo. Avrebbe potuto tacere – o come Hanna Arendt dice in una lettera a Karl Jaspers: “die Schnauze halten” – e in generale sono molti quelli che pensano che addirittura si debba continuare a tacere. Ma così subentrerebbe l’indifferenza, anche verso le sorti del mondo. Ecco allora che la chiacchiera diventa un modo per fare qualcosa. Infine la chiacchiera è naturalmente anche un azzardo, del quale non è possibile dire dove conduca.
In Italia la guerra partigiana ha dato luogo a una tradizione letteraria che, almeno negli anni dell’immediato dopoguerra, ha svolto un ruolo essenziale nell’edificazione di una narrazione civile indispensabile ai fini di una rinascita morale del Paese (basti pensare agli scritti di Calvino, Fenoglio e Meneghello). In Sudtirolo, invece, l’esiguità del fenomeno resistenziale ha ostacolato (o comunque non ha favorito) una narrazione in grado di appoggiarsi a quei pochi esempi di dissidenza antifascista e antinazista che avrebbero senz’altro contribuito a generare una maggiore coscienza critica rispetto all’esistente. Adesso non è tardi per colmare una simile lacuna?
Non penso proprio che sia tardi. Anzi, per certe cose non è mai tardi. Probabilmente noi elaboriamo il passato con lentezza. O con cautela, se l’espressione può risultare migliore.
Avviciniamoci di più al protagonista del libro. Chi era Hans Egarter e quali sono state le principali cause del suo oblio?
Hans Egarter è stato un uomo coraggioso. Ha preso terribilmente sul serio parole come fedeltà e tradimento. Al contempo la sua è una personalità estremamente complessa. È stato dimenticato perché avrebbe voluto che la società locale ripudiasse nel modo più drastico chi si era compromesso col regime nazista. La verità, affermava, è che i complici, i fiancheggiatori non hanno mai mostrato alcun pentimento o senso di colpa, ma al contrario hanno subito cominciato a scalare le posizioni di vertice, ad occupare posti di responsabilità. Il passato, quel passato è stato rimosso. Egarter invece pretendeva giustizia per le vittime e che i colpevoli venissero affidati alla giustizia.
Ultimamente abbiamo letto due romanzi, entrambi scritti da donne, che si sono posti il compito di spiegare le contraddizioni della recente storia sudtirolese in una chiave romanzata: prima “Eva dorme”, di Francesca Melandri, e poi “Stillbach oder die Sehnsucht”, di Sabine Gruber. In un certo senso il suo libro si pone nel solco di questa produzione. Com’è possibile – posto che sia possibile – qualificare le peculiarità di una via d’accesso femminile alle problematiche in esame?
Il testo che ho scritto ruota attorno a un dialogo immaginario tra una narratrice e il personaggio Egarter. Alla fine di questo dialogo Egarter afferma: “È probabile, forse è possibile che il ricordo sia femminile”. Ovviamente si esprime in modo prudente, la sua è solo una supposizione. Anch’io, l’autrice Waltraud Mittich, condivido questa posizione e penso che qui possiamo affidarci soltanto a una supposizione. In tutte le cose che ho scritto ritorna peraltro questa frase a proposito dell’elaborazione dei fatti storici. Ammetto del resto che una tale modalità femminile di ricordare abbia bisogno di essere coltivata con molta più intensità.
A un certo punto, nel libro, lei scrive “Soltanto quando tutte le piccole storie saranno scritte fino in fondo, allora potremmo giungere a scrivere la Saga. E questa tratterà dell’EuRegio, della bella regione”. Da questo punto di vista, qual è il contributo specifico che la piccola storia del partigiano Egarter porta alla costruzione di una simile Saga? E in quale lingua dovrà essere scritta?
La Saga, ovvero il grande romanzo sudtirolese, ancora ci manca. Ma se un giorno qualcuno avrà la ventura di scriverla, di questo sono convinta, illustrerà la via verso una storia che esprimerà un compimento sereno. Anche la lingua dovrà essere un’altra, un nuovo tedesco adatto a descrivere la via che avremo percorso.
Corriere dell’Alto Adige, 19 maggio 2012 (pubblicato col titolo “Partigiano Egarter”)