di Maria Roberta Canestrino
Il sociologo Fei Xiaotong descrive la composizione del popolo cinese con la formula 多元一体 (duo yuan yi ti), “origini multiple, un solo corpo”. Mentre la consapevolezza di questa forma nazionale è relativamente recente, la sua “configurazione pluralistica ma unificata” è “il risultato di un processo storico millenario” (Fei 1988). Più di tremila anni fa un nucleo della civiltà cinese nella valle dello Huang He, il Fiume Giallo, ha cominciato ad espandersi fondendosi con le popolazioni circostanti. Il risultato è l’attuale razza cinese (中华民族Zhong hua min zu): un mosaico di cinquantasei gruppi etnici o minzu distinti, indivisibili e teoreticamente uguali. In realtà le tessere del puzzle multiculturale cinese sono tutt’altro che proporzionate ed armoniose: la RPC ospita, innanzitutto, una singola schiacciante maggioranza, denominata Han (汉), che rappresenta il 92% della sua popolazione complessiva, i restanti 114 milioni appartengono ad una delle cinquantacinque altre minoranze etniche (uiguri, musulmani di lingua turca, tibetani, hui, musulmani sinizzati, mongoli, zhuang) ognuna delle quali può essere rappresentata da poche migliaia fino a diversi milioni di persone, la maggior parte delle quali sono concentrate nelle regioni di confine strategiche e ricche di risorse. L’identità etnica, il considerarsi di etnia Han, è una delle tre grandi relazioni, insieme al sistema di valori basato sull’appartenenza al Tianxia, un impero potenzialmente universale caratterizzato da pratiche culturali proprie del mondo sinico, e all’appartenenza ad una struttura politica, Zhongguo, attraverso le quali può essere definita l’identità cinese.
Nonostante sporadici episodi di conflitto, l’opinione comune sostiene che il PCC, specialmente dalla morte di Mao, abbia contenuto in modo relativamente competente le tensioni tra i diversi gruppi etnici. Nonostante ciò, gli episodi più recenti, l’attentato suicida di matrice uigura di Piazza Tiananmen del 28 ottobre, più per il valore simbolico del luogo scelto, con un suv che abbatte un’inferriata e prende fuoco all’entrata della Città Proibita, proprio sotto il ritratto del presidente Mao, e le esplosioni all’esterno della sede provinciale del PCC a Taiyuan nella provincia dello Shanxi dello scorso 6 novembre, offrono lo spunto per una riflessione sulla questione. Sembrano esserci segni che questo lavoro di contenimento sia destinato a saltare in virtù dell’attuale situazione nella quale le forze del libero mercato intensificano comunicazione, competizione e mobilità interetnica.
Intellettuali, politici e accademici cinesi sono coinvolti, ormai da qualche anno, in un dibattito senza precedenti sulle politiche etniche del partito-stato. Le politiche attuali che riguardano le minoranze etniche sono basate sulle teorie marxiste-leniniste e l’esperienza dell’ex Unione Sovietica. Il PCC ha però sinizzato alcuni aspetti importanti della teoria marxista-leninista sulla cosiddetta questione nazionale (民族问题), in particolare Mao e altri leader hanno fermamente escluso qualsiasi forma di federalismo per le minoranze, in base al principio per il quale l’unità dello Stato è il massimo valore politico e fattore primo dell’interesse nazionale. Hanno optato, invece, data la schiacciante maggioranza di Han, per una forma più circoscritta di autonomia etnica. La Costituzione della RPC prevede, almeno in teoria, una vasta gamma di protezioni legali per le minoranze, compresa la libertà di usare e preservare la propria lingua e di salvaguardare usi e costumi tradizionali, il diritto all’autonomia regionale nelle aree in cui le minoranze vivono in comunità compatte. Questo ha provocato un drastico distanziamento dalla visione della varietà etnoculturale della Cina imperiale. Nell’ortodossia confuciana, la differenza, in questo caso la varietà etnica, è considerata uno stato elastico e transitorio che può subire cambiamenti e trasformazioni attraverso l’apprendimento normativo ed i cambiamenti nello stile di vita. La differenza tra la civiltà cinese e le altre ritenute barbare è mutevole e determinata dalla cultura piuttosto che dall’appartenenza etnica o nazionale. La civiltà cinese era ritenuta così capace di azzerare gradualmente, dall’alto della sua superiorità e con la sua forza di attrazione, tutte le differenze etnoculturali. L’attuale politica cinese, al contrario, si basa, almeno dal punto di vista teorico, sulla volontà di preservare le differenze etniche e lo sviluppo graduale e orientato dallo Stato, permettendo a ciascun gruppo di progredire verso la “modernità socialista” ognuno ai propri termini e con il proprio passo. Questa politica si basa su tre elementi principali: l’identificazione e classificazione dei gruppi etnici (民族识别); un sistema di autonomia etnica regionale (民族区域自治制度); una serie di politiche preferenziali nei confronti delle minoranze etniche (民族优惠政策). Oggi queste politiche, senza più riguardo per la zona in cui le persone appartenenti a minoranze vivono, includono: accesso preferenziale al lavoro, all’educazione e agli uffici politici; alcune eccezioni alle restrizioni in materia di family planning; esenzioni particolari dalle tasse; il diritto a preservare e usare la propria lingua, cultura e religione. Lo Stato stanzia anche ingenti fondi per favorire lo sviluppo economico nelle regioni delle minoranze. Nonostante questo regime di protezione e promozione da parte dello Stato, la popolazione appartenente alle minoranze rimane significativamente indietro rispetto alla popolazione han in tutti gli standard oggettivi di sviluppo (educazione, sanità, guadagni). Eccessive generalizzazioni non sempre sono euristicamente utili ma va comunque considerato che le minoranze etniche nella Cina attuale sono come gocce d’olio in un mare di han, ormai la maggioranza in ogni provincia e in ogni regione autonoma ad eccezione del Tibet. Dal 1949 la migrazione han, sia sponsorizzata dallo Stato, sia spontanea, ha alterato profondamente lo spazio etnico della Cina, lasciando spazi autonomi sempre più ridotti per le culture minoritarie.
Gruppi etnici in Cina – Fonte: MSD ChinaNell’ambiente più aperto, più libero e market-driven della Cina post-Mao, lo Stato-partito trova sempre più difficile mantenere una politica di salvaguardia delle minoranze etniche e promuovere l’armonia interetnica, anche perché il suo primario obiettivo rimane il mantenimento della stabilità.
Le rivolte a Lhasa del 14 marzo 2008, i disordini divampati ad Urumqi del 5 luglio 2009, le proteste a Xilinhot e in Mongolia Interna del marzo 2011, fino agli episodi più recenti già citati, dimostrano, per molti, il fallimento delle attuali politiche etniche. Nonostante ciò la SEAC (State Ethnic Affaire Commission), una delle più alte autorità in materia di politiche etniche, ha continuato a sostenere l’efficacia delle scelte fin qui operate esemplificando la situazione cinese con la metafora di un mosaico pieno si di colori e sfumature diverse ma dal risultato assolutamente armonioso. Questo atteggiamento risulta per lo meno miope, dimostrazione dell’inefficacia dello Stato nel cogliere l’arretratezza e l’incapacità delle proprie politiche di disinnescare il conflitto etnico.
Tra gli accademici ed intellettuali che si sono occupati della questione etnica, Ma Rong, professore e preside della Facoltà di Sociologia alla Beijing University, espone innanzitutto un problema concettuale nell’uso del termine cinese minzu 民族, usato allo stesso tempo sia per riferirsi all’insieme della nazione e razza cinese (中华民族) sia per i sessantasei gruppi etnici (五十六个民族) auspicando l’introduzione, a livello lessicale, di una netta distinzione tra la “nazione” e i diversi “gruppi etnici” che condividono una cultura ma possono trovarsi a vivere in una o più nazioni. Ma Rong propone il neologismo zuqun (族群) per riferirsi alle diverse comunità etniche all’interno della Cina, considerando quest’ultima come una società multiculturale piuttosto che uno stato composto da più nazioni. Il sociologo ritiene che la fragile situazione delle relazioni etniche sia il più grosso problema sociale per la Cina contemporanea: attraverso una serie di politiche guidate da buone intenzioni ma in fin dei conti sbagliate, lo Stato-partito ha inconsapevolmente creato due Cina, una han e una delle minoranze. Ad esempio, il sistema dell’istruzione è diviso in scuole per studenti di etnia han e scuole minzu, dove gli studenti appartenenti alle minoranze etniche possono essere educati nelle loro lingue. Questa struttura duale han/minzu amplifica le differenze etnoculturali e contribuisce al conflitto sociale e ad una generale mancanza di mutua interazione e comprensione. Ma Rong ritiene che, nel seguire ciecamente la strada indicata dall’ex URSS, il PCC si sia allontanato dalla tradizione confuciana che, come già ricordato, ritiene l’identità determinata dalla cultura e non dall’appartenenza etnica. L’istituzionalizzazione dei gruppi etnici, invece, ha creato barriere concrete all’integrazione tra i membri di diversi gruppi etnici. Il modello che Ma Rong prende ad esempio per un cambiamento della situazione è quello statunitense dove, nella Costituzione, sono riconosciuti e garantiti i diritti dei singoli piuttosto che dei gruppi e viene incoraggiata l’interazione, i matrimoni interetnici. Il pericolo che la Cina corre, secondo Ma Rong, è quello di seguire URSS e Jugoslavia sulla strada della disintegrazione nazionale. Nonostante il sociologo cinese sicuramente ingigantisca il ruolo dei problemi etnici nel collasso dell’Unione Sovietica e abbia una visione troppo ottimistica della società americana, le sue idee hanno avuto grande risonanza in Cina.
Il più esplicito richiamo al cambiamento, più controverso e potenzialmente più influente proviene da Hu Anggang, fondatore e direttore dell’Institute for Contemporary China Studies alla Tsinghua University, descritto come un uomo di centro-sinistra, che già dal 2011 ha auspicato l’introduzione di una seconda generazione di politiche etniche per rafforzare un’identità nazionale condivisa. Insieme al suo collega Hu Lianhe, propone la “melting pot formula” (大熔炉摸式) già sperimentata in Brasile, India, Stati Uniti. All’interno del melting pot, il pluralismo culturale è garantito e agli individui è permesso mantenere le proprie tradizioni culturali ma la mancanza di istituzioni, leggi e privilegi basati sull’appartenenza ai diversi gruppi etnici incoraggia la fusione etnica e un senso di appartenenza nazionale.
Il cosiddetto “Minzu Establishment”, all’interno del meeting organizzato dall’Institute of Ethology and Anthropology at Chinese Accademy of Social Sciences con più di quaranta esperti rappresentativi anche del Central Committee’s United Front Work Department e del State Ethnic Affairs Commission, ha bollato l’agenda delle riforme come affrettata ed imprudente, riconoscendo un certo margine di perfettibilità alle politiche etniche adottate ma confermandone l’utilità per la particolare situazione nazionale cinese. Uno di questi esperti, Hao Shiyuan, in particolare, si interroga sul persistere del conflitto etnico in paesi come il Brasile, l’India e gli Stati Uniti, che pure hanno adottato la formula del melting pot. Soprattutto il caso degli Stati Uniti, paese caratterizzato da una forte immigrazione, non può essere in alcun modo paragonato a quello cinese. Hao si mostra comunque a favore della rimozione dell’indicazione di carattere etnico dalle carte d’identità senza però stravolgere il generale andamento delle attuali politiche etniche.
Anche tra i cosiddetti Liberal, alcuni si sono occupati della questione etnica, in particolare Li Datong, ex editore della rivista Freezing Point del China Yought Daily, ha invitato il paese a liberarsi dalla trappola delle attuali politiche etniche del PCC, responsabili di rafforzare le differenze tra i diversi gruppi, identificandole come principali responsabili della situazione di tensione attuale a questo livello.
Dando un rapido sguardo anche alla corrente denominata New-Left, si pone in rilievo la posizione di Wang Hui, professore di Chinese language and literature alla Tsinghua University, che ha cominciato a criticare le misure adottate in campo di differenze etniche dopo l’episodio del 14 marzo in Tibet. A questo proposito, Wang ha biasimato il modo distorto in cui i media occidentali, vittime del cosiddetto “effetto Shangri-la”, hanno affrontato la situazione tibetana in generale e gli episodi del 2008 in particolare. Wang è convinto che in Cina si sia di fronte ad una escalation di tensione etnica, parlando di crisi di legittimità, non solo in Tibet ma in tutto il paese. Ritiene che le politiche etniche debbano essere significativamente migliorate ma rigetta l’idea di un cambiamento drastico, ritenendo che queste siano il risultato della tradizione storica cinese e dell’esperienza rivoluzionaria ma anche il miglior metodo per il raggiungimento di un’uguaglianza de facto e non soltanto de jure.
Azzardare una previsione su quelle che saranno le posizioni e gli orientamenti del nuovo presidente Xi Jinping in materia di politiche etniche non è esercizio facile ma, osservando che le attuali misure sono strettamente associate all’eredità dell’ex Segretario Generale Hu Jintao, si può ritenere che un deciso cambiamento rispetto al passato significherebbe quasi un disconoscimento dell’eredità di Hu e del suo mentore in questo campo Hu Yaobang. Ad orientare il partito, invece, verso un cambiamento nel lungo periodo e significative riforme in campo di politiche etniche potrebbe essere l’influenza di Jiang Zemin, soprattutto se il suo protetto Xi Jinping dovesse riuscire a consolidare in breve tempo la sua posizione e il suo potere. Con le sue affermazioni sul cosiddetto China Dream (中国梦), Xi ha sottolineato la necessità di “percorrere la via cinese”, “coltivare lo spirito cinese” e “consolidare il potere cinese”; non è, per ora, chiaro come questo influenzerà la vita e la situazione della minoranze etniche. Wang Zhengwei, etnicamente uno hui, musulmano di lingua cinese, da nuovo capo della State Ethnic Affaire Commission, ha sottolineato come, nel fare di questo sogno la realtà, i cinesi debbano lavorare sull’unione dei sessantasei gruppi etnici prefigurando all’orizzonte significativi cambiamenti senza menzionare alcun provvedimento specifico. La forte componente nazionalistica che traspare dall’interpretazione di Xi Jinping del sogno cinese lascia pensare che la sua amministrazione possa basarsi su un modello di riforme e innovazione influenzato da valori asiatici piuttosto che occidentali. Xi Jinping, infatti, sembra essere particolarmente affascinato dal modello Singapore, che condivide con la Cina i valori asiatici e confuciani, caratterizzato dall’importanza dell’interesse nazionale e dell’uguaglianza rispetto agli interessi individuali e dei piccoli gruppi. La città-stato monitora da vicino le pratiche etniche e religiose mentre, attraverso una serie di esplicite politiche di integrazione, sostiene la creazione di un forte senso di appartenenza nazionale.
Va, in conclusione, considerato come la complessità del sistema politico cinese renda ogni iniziativa nuova estremamente complicata: la solidità del regime, obiettivo di lunga durata del partito, richiede innanzitutto stabilità sociale. Nonostante ciò, piccoli aggiustamenti, come la rimozione del gruppo etnico dai documenti di identificazione, l’incremento nello studio e utilizzo del Putonghua, lingua ufficiale cinese, l’incremento della mobilità etnica come riflesso del cambiamento del sistema dell’hukou, potrebbero comunque essere possibili. Lo stesso Xi Jinping, infatti, nel comunicato finale a conclusione del Terzo Plenum del 18° Congresso del PCC, ha dichiarato: “La sicurezza dello Stato e la stabilità sociale sono le precondizioni per le riforme e lo sviluppo”.
* Maria Roberta Canestrino è Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)
Per approfondire:
- AFP, “China Denies Government Policy Reason for Urumqi Riots” AFP, 21/06/2009
- Bhattachorji Preeti, “Uighurs and China’s Xinjiang Region”, Council on Foreign Relations, New York, 2010
- Cliff Thomas, “The Partnership of Stability in Xinjiang”, The China Journal 68: 79-105, 2012
- Hu Anggang, Hu Lianhe, “Dierdai Minzu Zhengce” (Seconda generazione di politiche etniche), Xinjiang Shifan Daxue Xuebao 32.5:1-13, 2011
- Leidolb James, “Toward a Second Generation of Ethnic Policies?”, The Jamestown Foundation, 2012
- Li Datong, “China’s Tibet: Questiion with No Answer”, Open Democracy, 2009
- Ma Rong, “A New Perspective in Guiding Ethnic Relations in the Twenty-First Century”, Asian Ethnicity 8.3: 199-217, 2007
- Ma Rong, “The Key to Understanding and Interpreting Ethnic Relations in Contemporary China”, International Institute of Social Studies (ISS), 2009
- Warmerdan Ward, “Not Just Politics: a Different Approach to Supporting Ethnic Minorities in China”, The Netherlands Institute of International Relations Clingendael
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