“L’Africa deve sbarazzarsi della sua visione romantica della Cina e considerare Pechino come un soggetto capace di comportamenti assimilabili ai vecchi sistemi coloniali”. L’invito all’affrancamento è stato lanciato da Lamido Sanusi, governatore della Banca centrale di Nigeria, in un articolo pubblicato lunedì scorso sul sito del Financial Times.
Facendosi portavoce dei sentimenti di un numero crescente di opinion leader del continente, ha messo in guardia l’Africa che “sta spalancando le sue porte a nuove forme di imperialismo”. “La Cina prende da noi beni primari e ci rivende prodotti manifatturieri. Questa è l’essenza del colonialismo”, ha dichiarato il banchiere nativo di Kano all’autorevole quotidiano finanziario britannico.
La Cina, precisa Sanusi, “ormai non è più un’economia sorella del mondo sottosviluppato”, ma “la seconda economia più forte del mondo, un gigante capace di esprimere le stesse forme di sfruttamento dell’Occidente”.
E rincara la dose, concludendo che “Pechino è uno dei maggiori artefici del sottosviluppo del continente, per questo i paesi africani devono contrastare queste pratiche commerciali ‘predatorie’, come i sussidi e le politiche monetarie manipolative, che procurano alle esportazioni cinesi grandi vantaggi. Al contrario, il continente africano deve rispondere costruendo infrastrutture e favorendo l’istruzione”.
Nel 2012 gli scambi commerciali tra Cina e Africa hanno raggiunto i 200 miliardi di dollari, un volume venti volte maggiore rispetto al 2000, anno in cui il governo cinese ha formalmente istituito il Forum on China-Africa Cooperation (Focac), un organismo sovranazionale creato per riunire i leader politici di entrambe le parti.
Alla luce di questo dato, le dichiarazioni del numero uno della Banca centrale nigeriana dovrebbero essere considerate in un’ottica che valuti come Pechino abbia progressivamente elaborato una strategia onnicomprensiva nei confronti del continente africano. Ponendosi sia sotto il profilo economico sia sotto quello politico sullo stesso piano delle potenze occidentali, che hanno rapporti consolidati con i paesi africani da tempi ben più remoti.
I reali interessi dell’Impero di mezzo in Africa sono stati e, continuano ad essere, al centro di numerosi accesi dibattiti accademici e politici. Specialisti di numerose discipline prestano sempre maggiore attenzione agli effetti dell’espansione cinese nel continente nero e molti di essi concordano nell’individuare principalmente tre aree di interesse, che agiscono come “leve motivazionali” della politica cinese in Africa.
Esse fanno essenzialmente riferimento all’acquisizione di materie prime, alla ricerca di nuovi mercati e al supporto africano nelle istituzioni internazionali. Si tratta quindi di motivazioni di tipo economico e politico. Le prime sono senza dubbio più rilevanti e per comprenderle è necessario considerare l’elevata crescita economica registrata negli ultimi anni dal Dragone asiatico.
Una crescita costante e sostenuta che ha consentito alla Repubblica popolare di entrare nel terzo millennio come il paese a maggior crescita economica a livello mondiale (accumulando, a partire dal 1980, incrementi annuali di circa il 9%) grazie ad una molteplicità di fattori, tra cui un notevole aumento della produzione industriale.
Proprio la straordinaria crescita del settore industriale ha fatto sì che, dal 1993 ad oggi, la Cina sia diventata il primo importatore netto di petrolio al mondo, scalzando dalla prima piazza gli Stati Uniti lo scorso dicembre, con la conseguenza la percentuale odierna di energia richiesta dal gigante asiatico sia superiore al 15% della domanda aggregata globale.
Nell’orientare la politica estera è quindi diventato fondamentale, per il governo di Pechino, l’obiettivo del mantenimento della sicurezza energetica. Per accaparrarsi riserve sicure e stabili di energia, la Cina si è impegnata in campo politico-diplomatico ed ha incoraggiato l’utilizzo di capitali statali e privati per investimenti in paesi esteri dove, da una parte, poter sviluppare l’industria estrattiva e, dall’altra, costruire le infrastrutture necessarie per portare queste risorse in patria o sul mercato.
Le risorse energetiche africane sono abbondanti, relativamente poco sfruttate e, in quanto collocate di frequente in contesti di forte instabilità politica, spesso soggette ad una debole concorrenza internazionale. Sulla base di questi due fattori, il continente nero rappresenta quindi un bacino ideale per il rifornimento stabile e certo di risorse energetiche. Oggi infatti la Cina riceve dall’Africa più del 30% del suo intero volume di importazione di greggio e, accanto ad esso, grandi quantità di rame, uranio, coltan, oro, argento, nichel, platino e legname.
L’approccio cinese all’Africa è dunque ispirato più dai bisogni interni che da una visione politica globale. La sua cinese verso il continente africano è dunque riconducibile alla necessità di assicurare un ambiente favorevole allo sviluppo interno, sia in termini di risorse che di nuovi sbocchi commerciali.
Elemento fondante del partenariato sino-africano è il pragmatismo economico: nessuna condizione politica ma solo contratti da firmare. Attraverso la lente della “non ingerenza”, dittature o democrazie sono identiche agli occhi di Pechino. L’unica condizione che il governo cinese impone è il rispetto del principio della cosiddetta one-China policy, attraverso cui riconosce particolare attenzione agli Stati che hanno rotto le relazioni diplomatiche con Taiwan, per supportare la causa della riunificazione cinese.
Una clausola alla quale ha ormai aderito quasi tutto il continente, visto che Pechino mantiene rapporti diplomatici ufficiali con cinquanta Stati africani su cinquantaquattro. E l’ex Celeste Impero ripaga a suon di dollari la fedeltà africana.
E’ con la forza dei suoi investimenti che la potenza asiatica raccoglie oggi un consenso diffuso in molti strati della società africana e tra le élite politiche, verso le quali il fiume di denaro cinese vale più di ogni altra argomentazione.
Oltre ad accordare varie forme di aiuto economico, sfrutta le materie prime africane e, in cambio, provvede alla costruzione di infrastrutture a titolo anche di assistenza, rilascia borse di studio agli studenti africani per andare a studiare in Cina, offre degli aiuti materiali e tecnici, azzera le tasse dei paesi più poveri.
Secondo Pechino, tale sistema è alla base di un rapporto paritario e di mutuo interesse tra due economie complementari, nel quale entrambi i partner guadagnano e che, non a caso, gli africani francofoni chiamano “gagnant-gagnant” (accordo commerciale da cui entrambi i partecipanti traggono beneficio relativamente equanime).
Detto sistema, però, non tiene conto di certi criteri internazionali in materia di investimento e di diritti umani, suscitando non poche inquietudini in Occidente. Inoltre, l’Africa deve prestare molta attenzione al rischio di affogare sotto l’eccezionale flusso di finanziamenti.
Per questo dovrebbe adottare una strategia comune di sviluppo continentale, cogliendo l’opportunità cinese e intraprendendo, allo stesso tempo, una via autonoma di sviluppo, senza sfruttare la corsa alle proprie risorse semplicemente per aumentare le quotazioni delle proprie materie prime.
Un simile approccio condannerebbe, ancora una volta, l’Africa alla logica del continente in vendita. Quello di cui ha invece bisogno è una strategia unitaria, la capacità di relazionarsi e di agire come un attore unico per diventare protagonista del suo futuro.