La città dei saltatori di muri
Creato il 05 maggio 2014 da Funicelli
La città di cui non si dice il nome è
Torino. Le industrie nel vecchio e glorioso passato sono ora dei
cimiteri di cemento e acciaio, al cui interno di nascondono, dagli
occhi dei benpensanti e dalle mire dei costruttori, gli immigrati.
Che, la notte, di nascosto, saltano dai muri per entrare nella città,
per lavoro o per far finta di farne parte.
Dalla strada non si vedono i fuochi,
frustati dal vento che batte gl scheletri d'acciaio. Prima erano i
trempli del lavoro, capannoni alti come basiliche o grattacieli,
centrali d'energia al servizio di un sogno d'industria, officine,
luoghi della fatica feriale difeso con orgoglio da quelli che dentro
sbuffavano e smadonnavano almeno otto ore al giorno almeno, su tre
turni, ogni giorno che Dio posava sulla terra. Luoghi dannati eppure
desiderati. Ora la città vive una sua vita sghemba da insetto, o da
serpe bastonata, un nuovo sogno sognato con meno tenacia, che
moltiplica i cantieri, parassiti di un futuro terziario promesso ogni
sera e rimandato, e la sua gente ora cammina di lat, scarta ad ogni
passo cambiando preghiera. Il sogno ha la forma di scatole di calce a
poco prezzo, arancione e azzurro a sedici piani, da tirare su in
fretta perché arrivano le olimpiadi e allora tutto cambierà.
Si muovono veloci, come fanno i
tarli nel legno o i castori quando costruiscono in mezzo all'acqua,
ma su un territorio vasto, e tanta parte rimane inesplorata, protetta
per decenni dalle mura delle fabbriche, accessibili solo ad orari
precisi a livelli diversi, da persone con diversa qualifica. Adesso
quel territorio è aperto, gli spazi un tempo inviolabili se ne
stanno violati, sventrati a ridosso delle strade, la vegetazione li
invade, oscena anche d'inverno, e si aprono trappole proprio vicino
ai piedi di chi passa. La vecchia industria ha perso il suo pudore e
si offre a chiunque, per un'ultima emozione segreta prima delle
ruspe: rimane sempre qualche angolo selvatico, fra le macerie e i
rovi, dove sopravvive un intero popolo alla macchia, come le blatte
nelle crepe dei muri, in lenta fuga dalla colonizzazione immobiliare.
Sono i saltatori di muri. Sono loro
che accendono i fuochi la notte, per scaldare buchi provvisoriamente
scampati al progresso: amano le erbacce, bruciano bene quando
l'inverno le ha seccate, se sono abbastanza folte ricoprono le loro
case alla vista delle avanguardie nemiche , assi e putrelle
abbandonate nei cantieri. Sono lenoni e lavoranti in nero, badanti,
aspiranti puttane, piccoli ragazzi con le idee confuse, gente che
chiede elemosina e gente che sfrutta e gente che fa le pulizie negli
uffici vuoti la notte. E poi intere famiglie, con i vecchi:
arrostiscono ali di pollo rimediatea chiusura dei mercati
all'ingrosso, dove arrivano a piedi o sui pullman, pronti a piangere
o saltare alla vista dei controllori.
Non andarli a cercare: la loro è
una terra pericolosa, sottratta alle abitudini della città. Basta
appostarsi la sera sul marciapiede e guardare le murate delle vecchie
fabbriche, e allora li vedi saltare. Volano al di sopra dei muri e
atterrano sul marciapiede flettendo le ginocchia, scarpe da
ginnastica o talloni nudi: iniziano il turno oppure hanno due soldi
da spendere e vogliono per sé almeno una fetta della grassa notte di
questa città occidentale. Saltano a uno a uno, per non farsi vedere
troppo, hanno capito la mente del luogo che rifiuta quel che si nota
e apprezza chi tace. Hanno addossato pedane di fortuna alle mura die
loro fortini, sul lato interno, e le usano come trampolini. Sono
pochi a vederli, per ora: la città ha gli occhi impastati del suo
magnifico futuro, pattini d'argento, sorrisi di architetti, la
cravatta dell'assessore ottimista.
[..]
Pagano anche l'affitto: di tanto in
tanto arrivano i mediatori, uomini esperti, con la giacca, e tengono
lo sguardo un po' di lato, per assicurarsi che non venga nessuno ad
interrompere. Portano sempre la stessa notizia: i costruttori si
avvicinano, bisogna togliere le tende, smontare le mensole, ma c'è
un altro piccolo spazio un po' più in là, più in fondo, appena al
di là dei rovi. E allora gli abitanti delle vecchie fabbriche
riprendono la ritirata del fango, come fanti slavi di un imperatore
già morto. Magari c'è posto anche dietro il carroponte, è solo
questione di soldi, pochi per altro. E intorno fioriscono ancora
nuovi parallelepipedi arancioazzurri per classi medie, disposte alla
proprietà a prezzo contenuto, che per ora non esistono. Verranno su
anche loro, come i rovi, l'assessore e l'architetto a ricordargli di
esistere, accordarli sul diapason del brillante futuro cablato,
terziario e fluido. In città il denaro gira soltanto attraverso le
mani dei costruttori.
Pagina 54-55
La descrizione di
questi “saltatori di muri” è di Luca Rastello, nel libro
“I buoni” (Chiarelettere
editore): tra questi saltatori, anche Raza, la protagonista
del libro. Che dalle sottofondi di una città dell'est, finisce
dentro la onlus I piedi in terra, di don Silvano, il santo. Il prete
impegnato nell'antimafia, nel sociale, nel fare del bene. Assieme a
tutti i suoi volontari. O almeno, questa è l'immagine che viene
proiettata all'esterno, dalle televisioni, dai comunicati stampa.
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