Magazine Cultura

La Clausura di Gabriele D’Annunzio 150 anni dopo.

Creato il 12 marzo 2013 da Emilia48

La Clausura di Gabriele D’Annunzio 150 anni dopo.

Gabriele D’Annunzio con Luisa Baccara

 

Più in alto, nel paese, dominava la villa del poeta. Un poeta che aveva speso tutta la sua vita a farsi monumento anzitempo. Ma forse nemmeno lui avrebbe voluto essere imbalsamato in questo modo, sconfitto nel suo sconfittoriale. Il poeta era vivo perché ogni più folle ansito di quella vita aveva avuto lo scopo di  immobilizzarla nell’eternità. Era questa la contraddizione.

Non si possono imbalsamare i poeti nelle loro case defunte, negli oggetti che sono loro sopravvissuti, nelle loro vesti funeree. E tuttavia le piaceva immensamente quell’atmosfera da catafalco sontuoso. Con tutti i suoi paraphernalia di maschere funebri, di mani mozzate eternate nel marmo, per esorcizzare il fantasma di una donna uccisa dal suo amore per lui, con i legni lucidi e scricchiolanti di cera odorosa, con l’esposizione pubblica degli oggetti-feticcio, con tutto il baluginio di quella ex vita costruita ad arte per gli occhi altrui. Quegli  occhi infatti, a migliaia, seguitavano a violare quella verbosa intimità ridondante, destinata a rappresentare se stessa e non certo il poeta segreto.

Le piaceva perché aveva il privilegio, riservato a pochi, di accedere alle stanze davvero private, quelle che il pubblico non può vedere, la Clausura del poeta e che erano state l’appartamento dell’ultima, la più devota e la più nemica vittima-carceriera, vestale tra le vestali.

Questa  è una parte della casa più accogliente del resto. Dà ancora in qualche modo l’idea di un luogo intimo i cui proprietari stiano per tornare da un momento all’altro e così le pareva di entrare come una ladra, che cerchi di rubare l’anima delle cose. Perciò, lasciata gentilmente sola, si era adagiata sul letto modesto, in cui la vestale aveva dormito solitaria, per recarsi, ma solo quando era più giovane, al talamo del vecchio poeta e scivolare poi nel ruolo di compassionevole mezzana, prigioniera della stessa prigione di lui. Stare distesa su quel letto vuoto da tanti decenni le aveva dato una strana sensazione vitale.

Si alzò e aprì il grande armadio di quercia intagliata. L’interno rivelò uno sciame di vestiti fantastici. Vestaglie di sontuoso velluto emprimée d’oro, foderate di seta cangiante, acquistate da Fortuny, sottovesti, camice, pegnoir, tutte trasparenti. A fiori, a farfalle, a fogliami e ramage, di tutte le fogge e di tutte le taglie. Avevano ricoperto corpi di morbida carne nuda. Ora, nella loro trasparenza opalescente, ne evocavano le forme perdute, ma erano tristi, appese alle loro stampelle. Vuote di quei corpi fuggevoli che le avevano riempite, che poi se ne liberavano alle stanche voglie di un vecchio malato e molto solo. Anime appese, erano.

Passò le mani tra le vesti. Erano ancora morbide, impalpabili. Le  scivolavano tra le dita come farfalle stupite. Staccò una ricca vestaglia blu notte di Fortuny, con il carré plissettato, da cui spiovevano morbide pieghe di velluto e le ampie maniche a chimono Accarezzarne la stoffa era come avvertire il calore di un corpo antico. Il fantasma di un sentore vago di essenze profumate si sollevava ancora dal tessuto, che le sue mani raccoglievano in fasci di pieghe, per osservare i riflessi della luce sul velluto cupo, illuminato dall’oro vecchio del motivo stampato a melograni.

Chiuse gli occhi e fece scivolare ancora le dita tra il voile delle vesti appese, ma ne ebbe un brivido spiacevole e se ne staccò.

Nei grandi cassetti sotto le ante erano ripiegati ampi scialli veneziani di seta ricamata, a  lunghe frange. Rossi, neri, carnicini. Che strana sensazione quelle onde di seta. Parevano pieghe delicate di pelle appena lavata e incipriata su cui s’erano posati fiori e uccelli.

Ripose ogni cosa al suo posto. La luce che entrava nella stanza accese il ricordo, quel suo essere lì, a rovistare tra le intimità che avevano acceso i sensi di qualcuno ormai altrove.

Il bagno privato della vestale era tutto bianco e nero, austeramente déco, elegantissimo, in gran contrasto con i tremila oggetti del bagno bizantino, blu e oro, che il pubblico poteva visitare.

Stipi e armadietti, una delicatissima porcellana bianca in una nicchia nera. Li aprì, con lo spirito di una Indiana Jones ragazzina, sicura di trovarli ormai vuoti. Conservavano ancora preparazioni mediche, bottiglie vuote con le loro etichette scritte a mano, scatolette di cipria con qualche residuo di polvere rosa ancora leggermente profumata. Un tubetto con qualche pastiglia. Sull’etichetta il nome di un preparato per lavande vaginali di una nota vecchia farmacia milanese. E  lì accanto,  un bizzarro marchingegno di gomma e metallo, un po’ corroso, che ne giustificava la presenza.

Ma era troppo. Le parve davvero di aver violato un’intimità che aveva il diritto di rimanere segreta. Questo apparecchio aveva irrigato il luogo in cui il poeta s’era spesso rifugiato prima di barattarlo con altri recessi meno devoti. E quella carne era ormai polvere, come la carne del poeta.

Sopravvivono gli oggetti, che nella loro infinita pietà, compongono un unico monumento funebre, quanto mai vario e bizzarro.

Chiese mentalmente scusa all’antica vestale, con una sensazione di profonda tenerezza per questa segreta e silenziosa femminilità dissolta da tanto tempo.

Fuori, al sole, nel cortile giallo e bianco, con gli archi e le colonne che incorniciavano il cielo color cobalto, si respirava una luce nitida.

 

Da: Francesca Diano, La Strega Bianca. 2010

 

(C)2013 by Francesca Diano  RIPRODUZIONE RISERVATA

 



Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :