L’ultima volta che ho visto il festival di Sanremo è stato un anno in cui cantava Rascel e mai e poi mai avrei immaginato di dover in un lontano futuro sfiorare così da vicino quell’atmosfera nei paraggi dell’Ariston. Però stavolta, incuriosito dall’annuncio che una Littizzetto platoneggiante avrebbe parlato della bellezza e poi dal tono del chiacchiericcio mattiniero sull’esibizione in pieno stoa sanremese, mi sono andato a rivedere i 13 minuti dell’intervento. E ci ho trovato molto dell’Italia di oggi.
Innanzitutto la noia della frivolezza continuata e aggravata seguita dall’abuso di retorica. La noia di nove minuti di battutine scontate su bellone e bellocce, tette rialzate e rughe stirate, sentite mille volte nel repertorio da vispa liceale della bruttina stagionata che sembra sempre aspirare a una rivincita dell’intelligenza sulle forme, l’esatto contrario di quanto predicano le sue fans. Un rosario di arguzie che in fondo non sono altro che il correlativo oggettivo di cent’anni di solitudine di questo Paese incapace di cambiare, ma aggrappato da decenni alla battuta come surrogato dell’opposizione. E poi finalmente la rivelazione che la bellezza consiste nella diversità. Non significa molto perché da 2500 anni sappiamo che la bellezza è nell’occhio di chi la guarda, è davvero l’unica categoria a priori di cui possiamo essere certi, tanto per storpiare Kant. Ma ritagliata nel mondo della fisicità sessuata, con i suoi modelli dettati dai media, con la sua uniformità biondacea e i suoi conformismi potrebbe avere un senso. Dopotutto è Sanremo
Però la Littizzetto non si ferma all’ovvia considerazione che la bellezza è più complessa di una rivista di moda e di una coscialunga: cerca di sfondare i limiti della sua stessa considerazione e si lascia trascinare dalla retorica tra noi leggera tirando fuori la donna sfigurata dal fidanzato, il modello Dawn, l’indossatrice in sedia a rotelle, la presentatrice senza un braccio di un programma inglese per bambini, Alex Zanardi che comunque è un “figo pazzesco”. E rivendica per queste persone la possibilità di comparire in uno spot della Barilla e o della Nutella. Oddio magari qualcuno potrebbe rivendicare che al di là dei casi eccezionali vi siano tutele sociali più ampie, scuole più efficienti, organizzazione sanitaria più capillare, sostegni alle famiglie piuttosto che lo spot che dovrebbe segnare il momento di raggiunta eguaglianza. Si, il discorso si è ribaltato nel giro di due minuti, ma insomma a forza di palare di walter si comincia a walterare. E magari si sarebbe potuto pensare di estendere il discorso non solo alla disabilità, ma ai tanti “diversi” che vivono in questo Paese con appiccicato un marchio di infamia e che nemmeno soffrono di alcun handicap se non quello di essere nati altrove, di avere la pelle un po’ di diversa o magari di usare in cucina spezie diverse turbando le nostre delicate narici. E questo porterebbe a fare un discorso di diritti e alla immensa diversità di ogni tipo che divide ormai i comuni cittadini dalle classi dirigenti.
Ma invece si parla di spot come supremo tribunale ideologico, politico e sociale, secondo la moda dell’evasività politica ormai benedetta e utilizzata dal quandismo istituzionale. Così come per la parte frivola anche questa pseudo seria non è che l’espressione del vuoto di concreta umanità, di prospettive, di visione e anche di ragione che si è prodotto nel Paese e che genera enfasi dai risultati paradossali o a volte grotteschi, ma sempre elusivi dentro la ritualità retorica.
Il successo della Littizzetto è il nostro stesso insuccesso.