Qualche settimana fa, durante una lezione di inglese, discutevamo, come al solito, dei massimi sistemi.
L’inglese è una lingua bellissima per parlare dei massimi sistemi, specialmente se non lo si parla bene: ti costringe ad essere sintetica, a vagliare accuratamente le parole, ad esporre il tuo punto di vista in una forma semplice e, proprio per questo, efficace. Se a tutto ciò si aggiunge una minuscola classe di entusiasti e un’insegnante farcita di humour britannico, la metafisica dei massimi sistemi finisce per occupare piacevolmente le due ore serali.
La domanda all’origine del confronto era stata suggerita dalla lettura di un brano: “se poteste tornare indietro nel tempo, lo fareste? Vi preferite ora o adesso?”. Prego notare quanto questo genere di domanda richieda un notevole sforzo mentale, visto che dalla trappola delle ipotetiche, della coniugazione dei verbi e dei modali è ardua scappare. Ho risposto che, per quel che mi riguarda, anche se è difficile e doloroso crescere, perdere le persone che amo, rendermi conto che, fisicamente, certe cose cominciano ad avere delle implicazioni fino ad ora sconosciute – per esplicitare: una volta cadevo, frignavo, mi rimettevo in piedi e ammiravo l’arcobaleno dei lividi; adesso cado, mi raccatta l’ambulanza, finisco a fare fisioterapia e dopo mesi non ne sono ancora uscita – sapere che il tempo per determinate importanti esperienze sta scadendo, io non tornerei indietro.
Non lo farei perché adesso sta cominciando a diventare molto più facile stare con me stessa, affrontare le situazioni che prima mi impaurivano, rilassarmi davanti all’ignoto, stemperare l’ansia da prestazione, accettare di non essere perfetta, incontrare persone che mi incuriosiscono e provare a conoscerle, trovare liberatorio dire no ed entusiasmante dire si, senza l’impiccio dei sensi di colpa. E anche se non c’è più il senso del tempo infinito davanti a me né il pensiero che ogni sbaglio, in virtù di questo tempo, possa essere successivamente corretto, stanno pian piano cambiando i miei metri di giudizio, soprattutto quelli verso me stessa. Ho sempre pensato a me come ad un intricato ammasso di fili annodati che però, piano piano, ho cominciato a sciogliere.
La cosa che mi manca di più è il tempo fermo dello studio: non ho ancora capito se è legata al trascorrere del tempo o è solo un’abitudine persa che devo riacquistare, proteggendola da ogni distrazione. Una volta mi riusciva facile: la mia stanza, la porta chiusa, molta luce, fogli di brutta copia per gli schemini, libri aperti e ore di concentrazione. Fatta la versione di greco? Bene, adesso è il turno della trigonometria e poi della letteratura, e poi avanti così, anche per ore, in un’apnea costante.
Sono talmente abituata, per lavoro, a fare molte cose contemporaneamente che ho assimilato un comportamento che non prevede tempi lunghi di concentrazione. Oppure no, invece: sono talmente abituata a dovermi concentrare, sul lavoro, che mi sembra di non essere più capace di farlo, nel mio tempo privato.
E forse, a pensarci bene, una delle principali ragioni per cui mi piacerebbe un giorno poter dire “adesso basta“, è proprio per ricominciare a decidere, in modo autonomo, della durata delle cose.