“Siamo aperti a tutte le famiglie” recita il manifesto di Ikea, e più sotto: “Noi di Ikea la pensiamo proprio come voi: la famiglia è la cosa più importante”. Lo slogan è accettabile per il regime del family day, ma è l’immagine che fa salire il sangue alla testa a chi ritiene lesivo che il sacro vincolo sia rappresentato da due maschi che si tengono affettuosamente per mano, recando nell’altra la sacca gialla dell’azienda.
A farsi interprete dell’offesa a un sodalizio la cui sacralità e dignità sono condizionate dalla benedizione della chiesa e dall’eterosessualità, oltre che dal proposito a procreare, ma non certo dalla presenza dell’amore disinteressato, è il sottosegretario alla Famiglia instancabile nel tutelare l’inviolabilità della privacy del premier sporcaccione ma tenace nel violare la nostra sfera intima, quella delle nostre relazioni, scelte ed attitudini.
Secondo Giovanardi, in un’ospitata dal pupazzo dell’advertising Klaus Davi, altro fautore del Mulino, bianco come un sepolcro, o meglio come un monumento dell’ipocrisia, “L’Ikea è libera di rivolgersi a chi vuole e di rivolgere i propri messaggi a chi ritiene opportuno. Ma quel termine ‘famiglie’ è in aperto contrasto contro la nostra legge fondamentale che dice la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio”.
Secondo il sottosegretario una coppia di due individui dello stesso sesso non è una famiglia, è contro-natura e come se non bastasse è anche contro la Costituzione.
La Costituzione per la maggioranza è come l’Europa: si ricordano di lei solo quando occorre per bassi servizi, per coprire qualche porcheriola, una foglia di fico su certe vergogne morali.
Ormai siamo tutti stanchi di ripetere che unità, immagine e senso del sodalizio familiare sono minacciati da molti pericoli: dai costumi sessuali di un premier compulsivo, che con le sue riprovevoli abitudini ha stravolto l’immagine delle donne e l’immaginario maschile; dall’offesa ai corpi e alla sessualità, diventati merce di scambio; dall’imposizione di stereotipi e modelli esistenziali, legati appunto al consumismo, all’accumulazione di favori e beni, nell’indifferenza di valori e sentimenti; dal familismo che sostituisce la circolazione di emozioni e passioni legate all’appartenenza a una comunità nella quale è bello ragionare insieme e conoscersi e incontrarsi, dall’isolamento in enclaves e campanili inclusivi per la paura dell’altro, per il timore di perdere meschini privilegi individuali.
E siamo altrettanto stanchi di ricordare che la famiglia vive in una “oscurità” del futuro, in una incertezza indotta dallo svuotamento di capisaldi della vita di relazione: istruzione, sapere, conoscenza, bellezza, sostegno alla cura, assistenza, solidarietà.
La sfera delle nostre relazioni è avvelenata. I legami identitari, il paese, il vicinato, gli amici, il mondo della propria terra, i luoghi dove gli individui cercano apprezzamento riconoscimento, valorizzazione, affermazione sono contaminati da egoismo, diffidenza, paura, personalismo, avidità.
E un archetipo, quello della pubblicità e del conformismo che vi attinge a larghe mani, spinge a separarsi dal mondo “grande” della società, per isolarsi nella cellula atomistica della famiglia, stretta e ristretta, intrisa spesso di rivalsa, rancori, invidia. Che al regime piace perché è chiusa, gregaria, individualistica, egocentrica e al tempo stesso spaventata, ricattabile e manovrabile.
La famiglie felici si assomigliano tutte, recita lo straordinario incipit di un romanzo. Questo regime sta ottenendo il risultato infame di rendere simili anche le famiglie infelici, tutte somiglianti a spot recitati in una rappresentazione, narrata e artificiale, di una esistenza della quale siamo sempre più espropriati. Così come vogliono espropriarci del diritto alla felicità, perché le persone felici sono libere.
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