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La crisi della razionalità neoliberista in Dardot e Laval

Creato il 26 maggio 2014 da Sviluppofelice @sviluppofelice

di Angelo Salento

Commento a Pierre Dardot, Christian Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Derive/Approdi, Roma 2013, pp. iv+503 (trad. di La nouvelle raison du monde. Essais sur la société néolibérale, La Decouverte, Paris 2009).

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Dopo il crack del 2008, le scienze sociali hanno iniziato a sviluppare analisi più o meno sistematiche delle trasformazioni del capitalismo. Uno degli interrogativi più rilevanti riguarda la straordinaria resilienza nei processi di accumulazione degli attori economici più potenti. Infatti la défaillance del capitalismo finanziario internazionale non ha messo in discussione le regole fondamentali delle transazioni. La divaricazione dei redditi è tornata a crescere rapidamente (si veda il database della Paris School of Economics segnalato su questo blog il 6 marzo 2014).

La spiegazione più diffusa di questa mancata inversione – vedi ad es. Crouch (2011) e Gallino (2013)[1] – insiste sulla forza degli attori economici più potenti, che sono in grado di incidere sulle scelte dei policy makers nazionali e internazionali. In queste prospettive, il termine neoliberismo individua, in pari tempo, una ideologia e una teoria economica, che legittimano entrambe il dominio economico e politico.

Pubblicato in prima edizione nel 2009 – quindi, occorre supporre, scritto almeno in parte prima del crack – il volume pone lo stesso interrogativo: «com’è possibile che, nonostante le ripercussioni catastrofiche cui hanno portato le politiche neoliberiste, queste ultime siano sempre più attive, al punto da precipitare interi Stati e società in crisi politiche e regressioni sociali sempre peggiori?» (introduz. all’ediz. italiana, p. 7).

L’ipotesi proposta da Dardot e Laval – rispettivamente un filosofo e un sociologo – è più radicale, e ha una fondazione teorica foucaultiana. Il termine neoliberismo, secondo gli autori, non va riferito semplicemente a un complesso di idee e di rappresentazioni garantite dalla potenza finanziaria di chi le mette in campo, ma individua una forma di vita – propria delle società occidentali e di quelle che hanno scelto la via della “modernizzazione” – destinata a sopravvivere a congiunture strettamente economiche. Il neoliberismo – affermano Dardot e Laval con Foucault – è una «ragione governamentale», una tecnica per “condurre la condotta” degli attori sociali mediante l’amministrazione statuale. Se la resilienza dell’accumulazione finanziaria e della sperequazione dei redditi ha destato sorpresa è perché la «vera natura» del neoliberismo non è stata compresa.

Nelle circa 500 pagine dell’edizione italiana, gli autori propongono una corposa genealogia del neoliberismo – presupposto indispensabile perché si possa pensare una resistenza efficace – articolandola in tre parti relativamente autonome. Il contributo fondamentale del volume sta nello sforzo di mostrare le continuità e, soprattutto, le discontinuità fra il liberalismo classico e il neoliberismo.

Questa ricostruzione ha almeno tre punti qualificanti. Innanzitutto, essa intende superare lo schema teorico marxista, che concepisce l’intervento regolatore dello Stato come mero strumento al servizio del potere finanziario, vero “motore della storia”. In realtà, secondo Dardot e Laval, l’espansione della finanza e la redistribuzione dei redditi verso l’alto non sono moti spontanei, ma vanno spiegati col mutamento della «globale cornice normativa» del capitalismo, come esiti di politiche deliberate.

In secondo luogo, la forza della “governamentalità” neoliberale, secondo Dardot e Laval, sta nella capacità di dare fondamento giuridico all’aspirazione di libertà degli individui, in qualunque ambito, non soltanto economico. L’ordine socio-economico neo-liberale, dunque, non è la semplice conseguenza di una crisi di accumulazione (quella prodottasi dalla seconda metà degli anni Sessanta), ma è la risposta a una crisi dei dispositivi di controllo della popolazione e di orientamento delle condotte.

In terzo luogo, la chiave della governamentalità neoliberale è il collegamento, reso istituzionale, fra vita e riproduzione sociale, da un lato, e logica dell’accumulazione dall’altro. La logica della concorrenza e della competitività diventa la chiave di volta della regolazione, non soltanto nella sfera economica: è l’imprenditore-di-se-stesso la figura fondamentale, che estende la razionalità del mercato all’esistenza intera, compiendo una svolta antropologica che incarica ognuno della missione di valorizzare economicamente il proprio tempo di vita.

La crisi corrente non è dunque meramente economica e/o finanziaria. È, piuttosto, crisi della ragione neoliberista. E va affrontata senza illudersi che contenga essa stessa – come in uno schema marxista – la logica del proprio superamento. Si tratta invece, per i protagonisti dei movimenti sociali cui Dardot e Laval si rivolgono, di decostruire un quadro regolativo sedimentatosi nel corso dei decenni e di sostituirlo con una nuova “ragione del mondo”. Né gli stati nazionali liberisti, né l’Unione Europea nella sua configurazione attuale possono essere strumenti di questa trasformazione, poiché essi sono, al contrario, i costruttori della razionalità neoliberale. Non basterà provare a riorientarli. Occorrerà invece ripensarli dalle fondamenta.

26 maggio 2014

[1] C. Crouch (2011), The Strange Non-Death of Neoliberalism, Polity Press, Cambridge UK (trad. it.: Il potere dei giganti, Laterza, 2012). L. Gallino (2013), Il colpo di stato di banche e governi, Einaudi.


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