Mia madre aveva 14 anni quando cominciò la deportazione degli ebrei. Ha vissuto l’inferno della guerra, gli stenti della vera fame.
A 14 anni una ragazzina di oggi manda sms alle amichette seduta sul suo lettino, nel 1943 le ragazzine a 14 anni lavavano i panni in fontana e portavano sotto al braccio ceste pesanti, cariche di panni, che lavavano per i “signori della borghesia”.
Le 14enni di allora cucinavano, rassettavano casa, guardavano i fratelli più piccole, erano già adulte.
Ogni volta che chiedevo a mia madre cosa fosse stato per lei la “guerra” si ritraeva sempre, era reticente a raccontarmi le cose, mugugnava, a differenza di mio padre, piuttosto scaltro da piccolo, che per esigenze di fame, rubava le derrate ai tedeschi suscitando ilarità. Spesso chiedevo ai miei genitori cosa fosse accaduto in quegli anni, ed entrambi quando ne parlavano avevano reazioni diverse. Mio padre iniziava a piangere, mia madre si innervosiva.
Emerse nei racconti di entrambi un orrore che mi porto dentro, pur non avendolo vissuto, riesco ad intuirne il dolore, l’amarezza e lo sconforto. La mia totale avversione per le idee di destra, la follia continua nel dare la colpa alle minoranze se nel mondo si vive male.
Mia madre mi raccontava di un cliente di mia nonna, un facoltoso commerciante ebreo costretto dalle leggi razziali a dover “andare via da Roma”. Affidò quindi la sua splendida cagnetta pechinese alla famiglia di mia madre, con preghiera di tenerla fino al suo ritorno.
La cagnolina era entrata a far parte della famiglia, mia madre si era affezionata tantissimo, ma il cibo scarseggiava e così mia nonna a malincuore decise di portare Lola, fuori Roma in campagna dai cugini.
Lola, fece modo e maniera di scappare, di lei non si ebbe più notizia.
Il tempo della spensieratezza non arrivava mai. Un bel giorno mentre si recava a far compere per la famiglia, la sirena annunciava i bombardamenti e nel correre verso il rifugio, mia madre perse una delle sue scarpe, che allora erano preziose e costose. Al ritorno mia nonna la rimproverò.
Si viveva di borsa nera, di poco cibo, si viveva nel terrore di essere uccisi. Aspettavano il ritorno del facoltoso commerciante ebreo, che naturalmente non ritornò più.
Arrivò poi il tempo della spensieratezza e delle lunghe passeggiate al Divino Amore. E a Trastevere i pochi ebrei scampati all’Olocausto ritornavano nelle loro botteghe e tutto ricominciò come se nulla fosse accaduto. Birkenau, Auschwitz e Buchenwald , cominciavano a circolare nei racconti dei sopravvissuti.
Prima della sua morte, la domenica mattina, dopo Portaportese a me e mio padre ci piaceva andare al “ghetto” a Portico D’Ottavia a magnà “la crostata di ricotta e visciole” da Boccione, l’antico forno famoso in tutta Roma e nel mondo.Entravo e mi accoglieva una teglia immensa di “bruscolini” (i semi di zucca salati) e poi la signora un po’ scorbutica che mi chiedeva: “a regazzì che voi?”.
La cosa sorprendente era vedere mio padre dialogare con tutti, e io non comprendevo come fosse in grado di conoscere tutta quella gente.
“A Frà come stai?” Chiese un signore a mio padre, mentre gli tendeva la mano!”
Fu la prima volta che vidi un numero lungo e quasi sbiadito, tatuato sul braccio di un uomo, mi fece molta impressione e orrore allo stesso tempo.
Chiesi a mio padre la storia, mi confermò con un nodo alla gola, che il suo amico era stato a Birkenau e s’era salvato per miracolo.
Con mia madre pregustavo 24 mesi fa la fetta di crostata di ricotta e visciole, che da li a poco ci saremmo mangiate. Ci eravamo fatte tutta una cronistoria di quello che era accaduto nella nostra famiglia fino ad allora: le pastarelle, i dolci con pasta di mandorle, e gli episodi di una vita intera. Camminavamo piano, con mia madre che affrontava i leggeri pendii della strada, come fossero salite insormontabile e faticose. Un cuore forte un tempo ed una mente lucida che stava arrendendosi al lento ed insorabile trascorrere dei giorni.
Arrivate di fronte la pasticceria, trovammo la serranda abbassata. Guardai meglio ed era giorno di riposo. Un vero peccato!
Ci sedemmo sulla panchina, in prossimità della pasticceria. Ricordo molto bene che mia madre, grande golosa ci era rimasta malissimo. Si accese la sua amica sigaretta e guardava in su, verso le finestre piccole e lucide.
Mi diceva che quella pasticceria era la da anni e che la domenica lei e mio padre, prima di sposarsi prendevano le paste di mandorle per mia nonna. Stranamente mi parlò di una sua amica a cui voleva molto bene e che venne deportata in un campo di concentramento. Delle lunghe passeggiate verso il gianicolo, dei momenti di spenseratezza e dei giochi da adolescenti. Nessuno si poneva il problema se eri ebreo o italiano. Eri semplicemente: “amico”. Notavo una struggente malinconia e io che me la sbaciucchiavo dicendole: nun ce pensà ma…La prossima volta se compramo na crostata intera e ce la magnamo qua!
Purtroppo non mantenni la promessa, non ci fu più occasione. Mia madre cominciò a stare male. 8 mesi fa è morta. Lasciandomi i suoi ricordi, e tra i tanti belli c’era proprio quella di essere una grande golosa di dolci, che io stessa preparavo per lei, e che la domenica mattina puntualmente veniva ad assaggiare.
Il capolavoro di una pasticceria ebraica che rimane nel tempo, inossidabile. Nonostante il male, sono riusciti a restituirci tanta dolcezza. La crostata rimarrà nei secoli, testimone che la dolcezza vince sempre sulla barbarie.
Non voglio insegnare a nessuno cosa è bene fare. Non voglio strumentalizzare un episodio così doloroso per il mondo intero. Ho una gran fortuna a non aver vissuto la guerra, ma ho vissuto il dolore dei miei genitori ed intuito quanto male abbia portato nelle persone la guerra e tutto quello che ne è scaturito.
Sta a noi lasciare delle memorie….io lascio questa mia, che è personale, ma andava diffusa, in un momento così particolare dove l’intolleranza regna sovrana.
Per non dimenticare …MAI!
27 gennaio 1943 – 2013
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