A noi qualche contentino come quella svalvolata di Irene Pivetti, la piagnona Nilde Iotti, alla quale Cossiga fece il brutto scherzo di dare un mandato esplorativo per la Presidenza del Consiglio.
La Camusso? È racchia, come la Bindi, d’altra parte. Si sono trasformate in maschi per ricoprire un ruolo da maschi. Peggio mi sento con le varie signore sculettanti di contorno a Silvio, da una delle quali, attualmente indagata (tra l’altro) per induzione e favoreggiamento alla prostituzione, noi donne ci siamo dovute sorbire la lectio magistralis su come usare in politica il fascino femminile.
Che rimane dunque? O racchia o troia? È questo il destino delle donne in politica? La politica quella nazionale, la politica dei pesci grossi. Poi che in ambito locale una brava signora faccia l’assessore in maniera pulita, sembra non contare nella “cultura di genere”.
Le donne che giustamente si sentono distanti da questo mondo di squali e squalesse, si dedicano ad altre attività. Ai tempi di Piccole Donne era la calza, il rammendo per i poveri, la beneficenza. Oggi è la cultura. Le donne sono sempre più attratte da questo universo, perché è l’unico al quale gli è concesso di accedere. L’uomo, il maschio, ha decretato che la cultura è un settore marginale della società (ed in effetti si fa di tutto perché tale rimanga), e che quindi poteva essere dato in pasto alle donne.
Già sessant’anni fa le mie zie non potevano frequentare il liceo perché era a classi miste, e per studiare bisognava avere il precettore in casa. Nel 2000 ho sostenuto gli esami “da esterna” per un istituto d’arte: la popolazione di donne –me inclusa- era del 98 per cento.
Cos’è cambiato da quando le donne non potevano frequentare la scuola a quando sono solo le donne che vanno a scuola? È semplice, ed è anche doloroso: la ribellione femminile ha portato ad un affrancamento del ruolo sociale della donna, ma questo affrancamento è rimasto confinato all’ambito delle discipline umanistiche e delle arti. Musica, spettacolo, pittura, romanzi –questo sì, si addice ad una donna! Ma non ingegneria, informatica, discipline tecnico-scientifiche, lavori manuali (sartoria a parte). Quanti idraulici-donna conoscete, e quante elettriciste, o “falegnamesse”? Come vedete, la penuria nominis della nostra lingua si fa sentire: il femminile di certi mestieri neanche esiste, e se si prova a coniarlo si ottengono risultati ridicoli e po’ spregiativi.
Perciò quando vedo conferenze con molte donne, presentazioni di libri in cui oltre che all’autrice c’è un battaglione di relatrici, ho la precisa sensazione di una sconfitta, coperta da un tragico (a volte tragicomico) velo di successo.
La cosa ancor più triste è che la donna sente una realizzazione nel raggiungimento di questi obiettivi a dire il vero piuttosto mediocri, e considera il mondo culturale come di suo possesso. Gli uomini le lasciano fare, perché sanno che i centri del potere non passano da lì. Ecco da dove nasce il feudo femminile, quello della cultura. Che funziona con tutte le strategie più deteriori di cui le donne sono capaci, prima tra tutte l’ipocrisia, le sperticate dichiarazioni di amicizia che nascondono coltellate alla schiena, la mancanza di rispetto camuffata da falsi sorrisi. Una sorta di Desperate culturewife , con tutto il contorno omicidi e scheletri nell’armadio. Si consuma tra le feudatarie, vassalle, vassalline e valavassore, una vera e propria guerra fatta di convegni, presentazioni e conferenze, in cui le armi sono l’abbigliamento, il booktrailer, il relatore di prestigio, un assessore alla cultura (maschio). È insomma un girotondo di asini letterari, in cui l’asino non sa di esser tale, e l’agnizione è penalizzata con l’esclusione dal girotondo. Il mio pensiero è che la cultura sia diventata più che il feudo, la calzetta della donna, e che la donna, assumendo comportamenti predatori tipici dell’uomo, la stia riducendo ad una calzetta “sciancata”.