La decadenza dell’Occidente, ovvero il nemico necessario
Pensando ad un editoriale di circa un mese fa sul Corriere della Sera di Galli della Loggia, riflettevo sul divario tra Occidente ed Oriente. L’editorialista lamentava l’indifferenza verso il mondo della cristianità, dovuta non solo ad una banalizzazione di essa da parte del mondo laico, ma anche ad un profondo senso di paura che si ha verso l’Islam, così come ci viene presentato, ed alla mancanza strutturale nella nostra cultura moderna di un “nemico”. Nemico nel senso di conflittualità non componibile che unita al rifiuto della morte, conseguenza del tramonto della religione, ha prodotto la svolta storica di un impossibilità per noi di pensare alla guerra. Probabilmente così sarà, forse siamo terrorizzati dall’idea di una guerra, avendone ancora i profondi segni sulla pelle da quelle del secolo scorso.
Credo che se con ciò si vuole intendere la mancanza di una tensione dialettica, il tutto si può ascrivere alla mancanza ed al tramonto di un Idea, profondamente condivisa. Il mondo occidentale vive una crisi di identità culturale molto profonda, oserei dire, quasi uno svuotamento. I tentativi sono tanti, spesso aborti di sè stessi, tante implosioni, non supportate da valide convinzioni. Importiamo filosofie esotiche, altri credo, spesso ”placebo” per spiriti deboli.
La realtà è che ci siamo allontanati sempre più nel corso degli anni dalla Vita, intesa nel senso più primitivo ed essenziale di essa. Sovrapposizioni mentali e culturali hanno allontanato il nostro stile di vita sempre più da quelli che sono i bisogni grettamente primari nell’uomo. Nel momento in cui logiche spietate hanno imposto come unico obiettivo il profitto ad ogni costo, il sacrificio dell’uomo nella sua esistenza più basilare ha pagato un prezzo troppo alto. Tutto è programmato e calcolato, con decoro mai disdicevole, dando adito ad un individualismo smisurato.
Basta vagare anche solo una volta nella vita in un paese di quelli cosiddetti “ sottosviluppati” per comprendere cosa ci manca, il Perchè. Anche nell’estrema povertà e nell’assoluta mancanza dei nostri comfort, si viene inondati da un senso di pienezza o ancora meglio di un senso e basta. Si comprende percettibilmente perché si è sulla faccia della Terra, si avverte di far parte in modo palpitante del flusso della vita che entra fortemente nelle nostre vene, nelle nostre viscere. Nulla ci differenzia dal povero mendicante, dall’albero, dal filo secco d’erba, dal gatto ramingo che circola affamato per i vicoli della città.
Si è pienamente umani, pur scontrandosi continuamente con una moltitudine di simili. Non si è uno fra i tanti. Si è vita tra tante vite, tutte volte allo stesso sforzo, al compimento del nostro percorso biologico, perché a ciò si è deputati. Le stesse tendenze artistiche dei paesi in via di sviluppo contengono questo forte richiamo all’esistenza umana e vitale. Le tele di molti artisti africani esplodono di colori, forti di vita, di sangue. Le forme sono quasi sempre tonde, generose, invitanti e quasi mai geometriche e troppo “ ragionate “.
Non si ha necessità di inventarsi tendenze nel campo culinario , mode alimentari, dalla dieta di cruditè a quella paleolitica, dal bio al km zero. Sicuramente in dati contesti sociali gli uomini, come da noi, si raggruppano in fasce sociali, si trincerano nei loro club, si difendono, pascolando tra di loro nei loro campi chiusi, assumendo atteggiamenti e costumi emulati ed importati dal nostro mondo. Ma è nelle piazze, nei souk, nei vicoli nascosti ed assolati che si possono ascoltare le voci, un canto di donna, l’abbaiare di un cane…che ti ricordano di essere al mondo e ti ci introducono generosamente. Una realtà che a piccolissimi brandelli lacerati tocchiamo nelle piccole realtà rurali del nostro territorio, immuni e disincantate, almeno per le vecchie generazioni, dagli stereotipi di vita moderna efficiente e veloce.
Il contadino sa come gira e come ruota il ciclo della vita, la vedo rinnovarsi ogni stagione, conosce l’importanza dell’accoppiamento, l’irrobustimento delle razze. Franco Arminio in Geografia commossa dell’Italia interna dice ” Piuttosto che militare per la ricchezza…dobbiamo pensare che siamo mortali, dobbiamo usare i nostri corpi, camminare, … salutare il sole… congedarci da ogni idea di progresso, … tenere il miracolo del mondo nel nostro fiato, raccontarci la meraviglia di essere qui insieme ai cani, alle nuvole, alle foglie…disarmare il disincanto”.
Al pensiero di Galli della Loggia circa la nostra incapacità di avere dei nemici obietto umilmente, citando Carlo Levi il quale sosteneva che il vero nemico era la classe piccolo borghese, una classe degenerata fisicamente e moralmente, incapace di adempiere alla sua funzione e che viveva solo di rapine e della tradizione imbastardita di un diritto feudale e l’unica possibilità era di coscientizzare la classe contadina, di darle il giusto ruolo e possibilità di crescita. Le cose non stanno più così ovviamente, la classe piccola borghese di allora è profondamente mutata, forse in peggio, ma anche il corpo contadino non esiste più, si è avvicinato sempre più a modelli non propri, si è sgretolato. Ma forse dalle sparute unità di vita rurale e semplice che si potrebbe ripartire, ritrovare il senso della natura, dei suoi cicli e bisogni.
Pertanto, credo che se di “nemici” dobbiamo parlare, intesi come punti di riferimento per dare una direzione ed un senso al nostro sistema,lo sguardo deve essere rivolto solo e soltanto a sé stessi, come individui e come società, e ripartire con modalità più semplici e viscerali possibili.
En, quo discordia civis/ produxit miseros! His nos consevimus agros! Insere nunc, Meliboee, piros, pone ordine vitis. /Ite meae, felix quondam pecus, ite capellae./Non ego vos posthac, viridi proiectus in antro,
dumosa pendere procul de rupe videbo;/carmina nulla canam; non, me pascente, capellae,/florentem cytisum et salices carpetis amaras… dalla Ecloga I delle Bucoliche di Virgilio.
Sabrina Maio
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