Magazine Diario personale
Nel 2.0 il tempo scorre rapido.
E se il tempo virtuale possiede la preziosa facoltà di renderci immortali, ha anche il potere di farci perdere di vista la nostra, assai più preziosa, Timeline analogica.
Nelle ultime settimane, in troppi tacciono ostinatamente.
Se ho bisogno di silenzio, vado a far visita al profilo deserto e lindo di qualche amico scrittore che, sopravvissuto agli ultimi mesi d’imbarbarimento del social media, è scomparso.
Anche Emanuele Trevi lancia la sua invettiva: Intellettuali!, evitate di frequentare tuitter e feisbùc. Franzen, mesi fa, aveva già messo sull’avviso i suoi colleghi, e parafrasando il titolo del romanzo di Parec “La scomparsa in cui non viene mai usata la lettera e”, aveva tuonato: esprimere un parere in centoquaranta caratteri è come scrivere un romanzo senza mai usare la lettera “p”. Infatti, i tuittatori a puntate continuano a marciare, fieri dell’escamotage che come sempre salva capra e cavoli –la loro incapacità di sintesi e la possibilità di esprimere comunque il proprio fondamentale punto di vista.
Comincio a pensare che certi intellettuali abbiano ragione.
Sono passati appena due giorni dalla vicenda che #Sallusti, inviso a tanti ma per alcune ore martire della libertà di stampa, è già scomparso dai TT, così come lo scandalo della Regione Lazio e i lazzi su Fiorito detto Batman. Soltanto ieri sembravamo prossimi alla rivoluzione e oggi è tutto un “Madrid è in rivolta e in Italia si fa la fila per l’IPhone5”.
Perché l’italiano medio un po’ ci tiene a dare di sé l’immagine del fancazzista qualunquista, anche se poi s’incazza duro quando a brutto muso gli fai notare che, se tanta gente è impegnata a trovare Tuit arguti, chissà chi è che lavora.
In fondo, e nemmeno tanto, siamo affezionati all’Albertone nazionale e ci teniamo a incarnare il tipo “furbo” e un po’ imbroglione ma tanto tanto tenero e creativo, l’impiegato che fa timbrare il cartellino al collega e che poi si rivolta indignato all’accusa con il vigliacco: nun sò stato io.
Ed è lo stesso che lotta strenuamente per difendere il proprio indifendibile punto di vista e si ostina a voler avere l’ultima parola, come se la divergenza d’opinione fosse una colpa anziché un motivo di confronto costruttivo e di distanza dalla fottuta omologazione.
Così, l'invettiva verso le voci soliste diventa un'univoco "ma chi cazzo sei", che ci libera in un sol colpo dal senso d'inadeguatezza al mezzo e finalmente, in massa, possiamo dire no al pensiero diverso.
Il “devi pensarla come me altrimenti non hai capito” è lo streptococco del consenso che sta attaccando anche twitter. Così come il “botta e risposta” infinito tipico di “faccialibro” e che produce conversazioni inutili e fastidiose per chi scorre la TL in cerca di notizie o di argomenti persuasivi su una questione di bruciante attualità.
Non passa di moda, invece, l’illusione puerile che esibire la propria cultura letteraria alla grande casa Editrice voglia dire che il proprio manoscritto non sarà cestinato e che un Editor illuminato si dirà: la ragazza legge, sicuramente sa scrivere da dio. Così come è sempre in auge il defollow immediato a chi non si “degna” di seguirci o il collettivo #FF o quello generico all’amore e simili amenità.
Ed è così che al mattino facciamo la conta di chi non ci segue più ma senza mai, per carità, domandarcene il motivo.
Ciò che sembra tramontato del tutto, e grazie all’intervento dei soliti neofiti che della netiquette non sanno che farsene, è il rituit. Perché fa più figo copiare e tuittare a proprio nome, tanto, pensa il ladro di copyright, un plagio di centoquaranta caratteri che vuoi che sia.
Così, la mancanza di originalità porta all’esaltazione del singolo che, se scoperto, risponde con il sempre più presente “sticazzi” e ti defollowa con un clik o si chiude per un po’ tra le spesse mura del suo profilo privato.
Perché siamo sempre quelli che votano Berlusconi e poi lo insultano al Quirinale in una notte di birra a fiumi e di liberazione, quelli dell’etica esibita in un post che parcheggiano in doppia fila, quelli della ricerca di notorietà a tutti i costi perché se così fan tutti posso farlo anch’io. Perché alla fine è sempre la “baumaniana” liberazione individuale che la fa da padrona. Il 2.0 ci ha svegliati in un incubo, in un mondo sovraffollato di idee spesso più intelligenti delle nostre. Ci siamo addormentati in un newsgroup e ci siamo ritrovati in un mondo pieno zeppo d’identità troppo simili alla nostra, e così soffocante da costringerci a volerci superare ogni giorno alla ricerca del consenso altrui.
Perché se da un lato vogliamo a ogni costo essere eletti numi tutelari di un pensiero unico, dall'altro abbiamo una paura fottuta di rimanere da soli.
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