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Con Ben Affleck e Rosamund Pike a ricoprire i due ruoli cardine della vicenda, il thriller (bellissimo, inutile tergiversare) è l'adattamento in celluloide del romanzo L'amore bugiardo (pessimo titolo con cui anche il film è distribuito nei cinema del Belpaese), best-seller internazionale del 2012 a firma Gillian Flynn, che dell'opera per il grande schermo cura pure la sceneggiatura.Gone Girl seziona, nella fattispecie, il matrimonio tra Nick Dunne (un Affleck adeguatamente ottuso e un po' cialtrone) e la sofisticata stellina dei media Amy (la rivelazione Rosamund Pike, una bellezza degna di Hitchcock). In apparenza una liaison perfetta, un rapporto da sogno nella realtà alimentato da un substrato di finzioni e rancori sopiti che sembrano (sembrano!) derivare essenzialmente dalla volontà di potenza della donna, dalla sua pretesa - inflessibile - di attenersi all'ideale del "due cuori e una capanna" cui il maschio si presta in modo discreto, come discreta e mediocre è la sua vita di provinciale che ha gettato a ramengo ogni ambizione personale (voleva fare lo scrittore, gestisce invece un infimo bar). Ma il fuoco cova sotto la cenere, e ben presto il quotidiano della coppietta - intanto ritiratasi in una tranquilla cittadina del Missouri - diventa asfittico e comincia a stillare veleno. Finché, nel giorno del quinto anniversario di nozze, lei scompare. E il sospettato numero uno, coi media che si buttano voracemente sulla tragedia come in un'Avetrana qualsiasi, è proprio Nick.
Fincher parte da questa situazione tipo, scandagliata sino allo sfinimento da cinema, teatro e letteratura contemporanei, per mettere a segno una sorta di apologo sulla finzione, con una maestria e una messa in scena talmente forzate ed estetizzanti da suscitare reazioni epidermiche: un film così, eccessivo e fascinoso al punto da rasentare il grottesco (non si possono rivelare gli sviluppi dell'indagine senza rovinare troppo la sorpresa), o lo si ama o lo si odia. E pubblico e critica, a giudicare dai premi e dal successo di botteghino in tutto il planisfero, lo sta acclamando.
L’amore bugiardo appartiene infatti a quella categoria di pellicole (molto costruite, quasi matematiche nel loro dispensare tensione e fredda denuncia sociale) che nello spettatore scafato può suscitare sulle prime qualche resistenza, salvo conquistarlo a tradimento con un guizzo, una trovata imprevedibile che in questo caso si deve innegabilmente all'indiscussa capacità del regista di manipolare le attese. E in un'opera che riesce a destreggiare con convinzione più temi (l'ineluttabile frantumazione del ménage matrimoniale ma anche l'assedio della televisione nelle nostre vite) il concetto di manipolazione diventa il cuore, il soggetto, anzi lo stesso tegumento con cui si costruisce una narrazione a scatole cinesi in cui tutti complottano, tutti tradiscono, tutti mentono. E chi non mente - l’opinione pubblica, che si beve le diverse versioni della storia inscenate via-via - è complice di questo puzzle menzognero cui vuole ostinatamente dare credito. Gone Girl è di fatto un oggetto cinematografico di catalogazione complicata, che ha l'indiscusso merito di rinnovare in profondità determinate convenzioni narratologiche per restituirci una "visione" che ti resta appiccicata addosso, per giorni, una specie di patina spiacevole e vischiosa di difficile rimozione. Che è poi la qualità principale delle opere d'arte degne di essere ritenute tali. Applausi.
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