Ci sono cose che sappiamo bene: che nei ristoranti americani (almeno in molti di questi) la doggy bag, il sacchetto per gli avanzi, viene proposto dagli stessi camerieri; che persino la first lady Michelle Obama appoggia con decisione questa sana abitudine (a Roma, in occasione del G8 2009, portò via la carbonara avanzata al ristorante con sublime disinvoltura); che in Cina dire «Dabao» a fine pasto (espressione che significa pressappoco «mi faccia un pacchetto») è perfettamente normale, anzi, sintomo di buona educazione; che in Francia è abbastanza normale uscire dai ristoranti stellati con la borsina del cibo avanzato; che anche da noi ci sono delle doggy bag molto belle, alcune persino firmate.
E poi ci sono cose che sappiamo meno bene: che noi italiani, prima del benessere economico diffuso, eravamo dei sani portatori a casa di cibo avanzato: negli anni Cinquanta ti avvolgevano nella carta le cosce di pollo rimaste sul piatto e con naturalezza poi la riponevi in cucina o le davi al cane o al gatto; che oggi sprechiamo moltissimo: ogni famiglia italiana butta in media 200 grammi di cibo a settimana: il risparmio possibile, eliminando questi sprechi, ammonterebbe a circa 8,7 miliardi di euro l’anno (dati del Ministero dell’Ambiente, diffusi alla vigilia degli Stati Generali contro lo spreco di cibo, previsti il 5 febbraio a Roma).
Ma allora, che cosa ci è successo? Perché molti di noi si vergognano a chiedere la doggy bag, visto che i nostri nonni o bisnonni lo facevano con naturalezza? Perché ha prevalso una sorta di provincialismo piccolo borghese che ha trasformato il cibo in un arido bene di consumo destinato allo sperpero, quando invece è una «benedizione», come dicevano i nonni? Non solo in Italia ma, andando addirittura indietro di secoli, nella Parigi delle monarchie assolute dei banchetti regali non si buttava via niente. Come fa notare lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari «esisteva una vera e propria economia del recupero, con ufficiali appositi che ridistribuivano in città gli avanzi della corte».
Eppure, qualche segnale di «aristocrazia a tavola» (indice di spontaneità, di non asservimento alle convenzioni provinciali) c’è: abbiamo la rete di ristoranti contro lo spreco, dal nome «Il buono che avanza»; l’iniziativa «Pasto buono» del Comune di Genova distribuisce agli indigenti quel che avanza nei ristoranti; la Provincia autonoma di Trento ha distribuito nei ristoranti 40 mila eco-vaschette. E così via.
Insomma, le buone radici ci sono, quel che resta da fare è spogliarsi dei pregiudizi residui e fare come i re di Francia: guardiamo più alla sostanza che alla forma.
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