Dopo Maigret, appena più giovane di Pepe Carvalho, e molto prima di Montalbano, Coliandro, Bordelli e compagnia, c’è stato Melchiorre Ferrari. Commissario di seconda classe a Pavia, negli anni della dominazione austriaca (il suo primo ‘caso’ è del 1842, con il maresciallo Radetzky che sta col fiato sul collo della polizia della città), Ferrari è davvero esistito, e ha lasciato agli eredi i suoi (a volte criptici) appunti sulle sue indagini e sui suoi pensieri di pavese costretto a vivere in tempi non facili. Gli appunti delle sue ‘inchieste’ sono serviti come base per le storie raccontate da Mino Milani, che poi ha proseguito facendone un personaggio autonomo, che sta vivendo, con noi, anche avventure che mai avrebbe immaginato.
Peccato che tutte queste avventure siano state pubblicate in occasione della festa di San Siro, patrono di Pavia. Dico “peccato” perché la distribuzione dei “libri di San Siro” è sempre stata circoscritta a Pavia. Adesso, però, le Edizioni Effigie hanno cominciato a ristampare, riveduti e corretti dall’autore, le inchieste del mio commissario preferito, e a pubblicare qualche nuova indagine.
“La donna che non c’era” è, appunto, l’ultima inedita indagine di Melchiorre Ferrari. Radetzky, tanto per dire, viene mandato in pensione, ché a 91 anni se lo merita pure, mentre resistono il solito sovrintendente Ziller, che ormai, dopo tanti anni, ha imparato a parlare italiano; e, di fianco a Melchiorre, il fido Steiner (“Ach, sighnor commissario, tutto bene, ja?”).
Su tutto, una morte per certi versi terribile che forse non è una morte sui cui indagare, ma forse sì; un invito alla Scala, vestito nero e scarpe di coppale (che finalmente ho capito che cos’è e come funziona); le ultime scoperte di polizia scientifica, tra chimica, veleni, indagini e ora della morte; e un bel po’ di merda (scusate) da spalare, sia metaforica che vera e reale.
La scrittura è, come sempre, piana e densa, non si perde in fronzoli, va al fondo delle cose e della vita, con tutti i misteri e le incertezze e i dubbi che sono di Ferrari, ma anche di ogni lettore. I discorsi, le parole dirette dei protagonisti si immettono senza chiedere troppi permessi durante lo svolgersi dell’azione, rendendola viva e vivace, e quasi costringono a pensare con loro e come loro. E mentre si segue il commissario nell’indagine, tra autopsie, ricerche, domande, sparizioni di gente e di cose; mentre si condividono le sue malinconie, il suo desiderio di tranquillità, le sue domande sul domani, il suo tirarsi indietro, davanti a esse, “con un filo di… di che cosa? Paura? Per quanto sarebbe potuto accadere di lì a un secolo e mezzo?”, ecco, mentre ci si perde nella storia e nelle storie, Milani semina qui e là indizi, sassolini di inciampo e di suggerimento, scene filtrate dagli occhi di Ferrari, immagini che forse c’erano o forse no, come la donna del titolo, che subito dimentichiamo, presi come siamo dalla “vita del marinar”. Magari per scoprire, poi, che avremmo fatto meglio a ricordacene e che essere un commissario in un romanzo non vuol dire automaticamente capire tutto ciò che accade (Ach, sighnor Milani, tutto bene, ja?).
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