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La donna della domenica

Da Povna @povna
Se è vero (come è vero) che il ritmo della sua lettura quotidiana fornisce anche, sotto traccia, se non (sarebbe eccessivo pensarlo) il metro del suo benessere, di certo quello della sua capacità di adattarsi senza troppi spasimi alla prosa della vita reale, le ultime settimane 'povniche denunciano, a chiare lettere, un dato di fatto. E cioè il passare tumultuoso di giorni un po' ribelli, scanditi da pensieri impertinenti, sogni, salti, cambi di rotta, brusche quanto impreviste accelerazioni della trama. Ne ha subito le conseguenze, appunto, la quantità di pagine macinate in questo tempo, che è stato denso, ricco, incomprensibile e pure molto bello (anche se in modo sghembo), ma le ha lasciato, viceversa - tra paese-che-è-casa, improvvisate del ritorno, Neverland, ritorno alla normalità, denti - poco spazio per dedicarsi ai libri. L'inizio della scuola, però, come è, come non è, segna sempre un'inversione di tendenza, e costringe la 'povna, suo malgrado, a riappropriarsi in modo sufficientemente armonico del quotidiano.
Nel primo fine-settimana dopo il rientro, dunque - oltre al recupero delle ore di sonno, e alla cura assidua del suo dente - si è potuta dedicare alla Donna della domenica, che ha finito appunto nel giorno giusto e del quale lascia su Slumberland, a futura memoria, la sua brava recensione.
La chiacchiera, il salotto buono, le allusioni, la sottile trama di una Torino che forse è ancora (ma indubbiamente fu, capitale di un modus impalpabile) la fanno effettivamente da padroni - come recita la quarta di copertina - ancora e ancora sempre, in un romanzo che scivola via sul filo di una ostentata leggerezza, rendendo la digressione (di intreccio, e forse anche modestamente linguistica) il tratto decisivo dell'intera narrazione. C'è molta abilità in questo, forse persino bravura, e il gusto sapiente del pastiche. Peccato che, alla fine, la sensazione sia quella che si sia inventato poco e niente, e che si giochi con stereotipi di genere (il poliziesco) e stilistici - e molta ostentazione di mondanità letteraria, di chi sa. Proprio per questo, specie se si ha il privilegio (o la sfortuna) di coglierli tutti, o quasi, quei sapidi riferimenti, la chiusura del libro porta solo al sospiro che si riserva al prevedibile (e previsto), a un irritato senso di deja-vu. Il deja-vu di una casta (letteraria) che proclama un aggraziato balletto, e parole indirette, e doppi codici. Ma alla fine, già dagli anni Settanta, getta le basi di quel Titanic fintamente progressista in cui - con consapevolezza, ma, per carità, sempre il sorriso sulle labbra - un'intera classe dirigente (di editori, traduttori, docenti universitari, recensori più o meno militanti) ha gettato questa povera Italia.

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