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La donna e il burattino – Romanzo spagnolo 6

Creato il 12 novembre 2012 da Marvigar4

la donna e il burattino

La donna e il burattino

Romanzo spagnolo

Traduzione dall’originale francese La Femme et le Pantin – Roman espagnol

di Marco Vignolo Gargini

6. DOVE CONCHITA SI MANIFESTA, SI NEGA E SPARISCE

Aveva detto quelle parole con un tale sangue freddo che mi fermai, smarrendomi per lei.

Che c’era in quella piccola testa di bimba provocante e ribelle? Che significava quel modo deciso, quello sguardo franco e forse onesto, quella bocca sensuale che si diceva intrattabile come per tentare gli ardimenti?

Non seppi che pensare, ma compresi perfettamente che m piaceva molto, che ero felicissimo d’averla ritrovata e che senza dubbio avrei cercato tutte le occasioni per guardarla vivere.

Eravamo arrivati alla porta di casa sua, dove una fruttivendola esponeva le sue ceste.

«Compratemi dei mandarini», mi disse. «Ve li offrirò di sopra.»

Salimmo. La casa era inquietante. Un biglietto da visita femminile senza indicazione era affisso alla prima porta. Sopra, un fiorista. Accanto un appartamento chiuso da cui fuoriusciva un rumore di risate. Mi chiedevo se quella ragazzina non mi portasse semplicemente al più banale degli appuntamenti. Ma, insomma, il contorno non provava niente, le sigaraie indigenti non sceglievano il loro domicilio e io non amo giudicare la gente dalla targa della loro strada.

All’ultimo piano, lei si fermò sul pianerottolo cinto da una balaustra di legno e bussò leggermente con il pugno tre volte su una porta scura che si aprì con sforzo.

«Mamma, fa’ entrare», disse la fanciulla. «È un amico.»

La madre, una donna vizza e nera, che portava ancora dei ricordi di bellezza, mi squadrò senza grande confidenza. Ma dal modo in cui sua figlia spinse la porta e m’invitò a starle dietro, mi resi conto che una sola persona era la padrona in quel tugurio e che la regina madre aveva abdicato la reggenza.

«Guarda, mamma: dodici mandarini; e guarda ancora: un napoleone.»

«Gesù!», disse la vecchia giungendo le mani. «E come ha guadagnato tutto questo?»

Spiegai rapidamente il nostro doppio incontro, in treno e alla Fabbrica, e portai la conversazione sul terreno delle confidenze.

Furono interminabili. La donna era o si diceva vedova d’un ingegnere morto a Huelva. Tornata senza pensione, senza risorse, aveva mangiato in quattro anni d’una esistenza peraltro modesta le economie del marito. Insomma, una storia, reale o falsa, che avevo sentito venti volte e che terminava con un grido di miseria.

«Che fare? Io non ho mestieri, so solo occuparmi della casa e pregare la Santa Madre di Dio. M’hanno proposto di fare la portiera, ma sono troppo fiera per essere serva. Passo le mie giornate in chiesa. Preferisco baciare le pile del coro che spazzare quelle del portone, e spero che Nostro Signore mi sostenga nell’ultima ora. Due donne sole sono così esposte! Ah! caballero, le tentazioni non mancano a chi le ascolta! Saremmo ricche, mia figlia e io, se avessimo scelto le cattive strade. Avremmo muli e colliers! Ma il peccato non ha mai passato la notte qui. La nostra anima è più onesta del dito di san Giovanni e confidiamo in Dio che riconosce i suoi figli tra mille.»

Conchita, durante questo discorso, aveva ultimato, davanti uno specchio appeso al muro, un’opera da pastellista con due dita e della cipria su tutto il suo faccino troppo scuro. Si voltò, rischiarata da un sorriso di soddisfazione e mi sembrò che la sua bocca ne fosse trasfigurata.

«Ah!» riprese la madre, «Che cruccio per me, quando la vedo uscire la mattina per andare alla Fabbrica! Quali cattivi esempi le danno! Quali parole volgari le insegnano! Quelle ragazze non hanno rossore nelle guance, caballero. Non si sa mai da dove vengono, quando entrano là la mattina, e se mia figlia le ascoltasse, da un bel pezzo io non la vedrei più.»

«Perché la fate lavorare là?»

«Altrove, sarebbe la stessa cosa. Voi sapete bene com’è, signore: quando due operaie stanno dodici ore insieme, parlano di ciò che non si dovrebbe per undici ore e tre quarti e il resto del tempo stanno zitte.»

«Se non fanno che parlare, non è un gran male.»

«Chi dà il menu dà la fame. Andiamo! A perdere le ragazze sono i consigli delle donne più che gli occhi degli uomini. Non mi fido neanche della più saggia. Quella che ha il rosario in mano ha il diavolo sotto la gonna. Né giovane né vecchia, mai un’amica: è ciò che vorrei per mia figlia. E laggiù, ve ne sono cinquemila.»

«Ebbene, che non vi ritorni più», interruppi.

Presi dalla mia tasca due banconote e le posai sulla tavola.

Esclamazioni. Mani giunte. Lacrime. Sorvolo su quello che immaginate. Ma quando le grida furono cessate, la madre mi confessò scuotendo il capo nondimeno sarebbe stato bene che la ragazza riprendesse il suo lavoro, poiché la somma non bastava nemmeno per i debiti con il padrone di casa, il droghiere, il farmacista, la rigattiera. In breve, raddoppiai la mia offerta e presi congedo seduta stante, usando un pudore e un calcolo parimenti naturali nel tacere quel giorno là a me i miei sentimenti.

Il giorno dopo, non lo nego, erano appena le dieci quando bussai alla porta.

«Mamma è uscita», mi disse Concha. «Fa la spesa. Entrate, amico mio.»

Mi guardò, poi si mise a ridere.

«Allora! Faccio la brava davanti a mamma. Che ne dite?»

«In effetti.»

«Non crediate affatto che sia per educazione. Io mi sono allevata da sola: è un bene, perché la mia povera madre ne sarebbe stata proprio incapace. Sono onesta e lei se ne vanta; ma se m’affacciassi alla finestra chiamando i passanti, la mamma mi contemplerebbe dicendo: ¡Qué gracia! Faccio esattamente ciò che mi piace fare dal mattino alla sera. Così ho del merito a non fare tutto ciò che mi passa per la testa, poiché non è lei che mi tratterrebbe malgrado le frasi che vi ha detto.»

«Allora, personcina, il giorno in cui un novio sarà candidato, è a voi che dovrà parlare?»

«A me. Ne conoscete?»

«No.»

Ero davanti a lei, in una poltrona di legno il cui braccio sinistro era rotto. Mi vedo ancora, le spalle alla finestra, vicino a un raggio di sole che striava il pavimento…

All’improvviso si sedette sulle mie ginocchia, mise le mani sulle mie spalle e mi disse:

«È vero?»

Non risposi più.

Istintivamente, avevo stretto le mie braccia su di lei e con una mano attiravo a me il suo caro viso diventato serio; ma lei anticipò il mio gesto e posò lei stessa fortemente la usa bocca ardente sulla mia guardandomi profondamente.

Impulsiva, incomprensibile: l’ho sempre conosciuta così. L’impeto della sua tenerezza mi conturbò come un beveraggio. L’abbracciai ancora di più. La sua vita cedette al mio braccio. Sentii gravare su di me il calore e la forma rotonda delle sue gambe attraverso la gonna.
Si alzò.

«No», disse. «No. No. Andatevene.»

«Sì. Ma con te. Vieni.»

«Seguirvi? E dove? A casa vostra? Amico mio, non contateci.»

La ripresi tra le mie braccia, ma lei si liberò.

«Non toccatemi, o chiamo; e allora non ci rivedremo più.»

«Concha, Conchita, mia piccola, sei folle? Come, io vengo da te in amicizia, ti parlo come ad un’estranea; ti getti all’improvviso tra le mie braccia, e ora sono io che tu accusi?»

«Vi ho abbracciato perché vi amo molto, ma voi, voi non m’abbraccerete senza amarmi.»

«E tu credi che non ti ami per niente, bambina?»

«No, io vi piaccio, vi diverto; ma non sono la sola, non è vero, caballero? I capelli neri crescono sulla testa di tante ragazze, e tanti sono gli occhi che passano per le vie. Non ne mancano, alla Fàbrica, di graziose come me chi la danno a bere. Fate quel che vorrete con loro, vi darò dei nomi se me ne chiedete. Ma io sono io, e di me ce n’è una sola da San-Roque à Triana. Così non voglio che mi si compri come una bambola al bazar, perché, una volta presa, non mi si ritroverebbe più.»

Dei passi salivano le scale. Si voltò verso la porta e aprì a sua madre.

«Il signore è venuto per avere tue notizie», disse la bambina. «T’aveva trovata male e ti credeva malata.»”

…Uscii dopo un’ora, molto nervoso e indispettito, e dubitando tra me se sarei mai tornato.

Ahimé! tornai; non una, ma trenta volte. Ero innamorato come un giovanotto. Voi avete conosciuto queste follie. Che dico! voi le provate proprio mentre vi parlo, e mi comprendete. Ogni volta che lasciavo la sua camera, mi dicevo:

«Ventidue, o venti ore fino a domani», e quei milleduecento minuti non passavano mai.

Poco a poco, finii per passare l’intera giornata in famiglia. Provvedevo alle spese e pure ai debiti, che dovevano essere notevoli, a giudicare da quel che mi costarono. Questa era piuttosto una garanzia e d’altronde non correva alcuna voce nel quartiere. Mi persuasi facilmente che ero il primo amico di quelle povere donne sole.

Senza dubbio, non mi costava niente diventare loro familiare; ma un uomo si stupisce mai di ciò che ottiene facilmente? Un sospetto solo avrebbe potuto mettermi in guardia, al quale non mi arresi affatto: voglio dire l’assenza di misteri e di impaccio nei miei riguardi. Non ci fu mai un’occasione in cui non potessi entrare nelle loro camere. Concha, sempre affettuosa, ma sempre riservata, non faceva alcuna difficoltà a rendermi persino testimone della sua toilette. Spesso, il mattino, la trovavo coricata, poiché si alzava tardi quando era oziosa. Sua madre usciva, e lei, piegando le gambe nel letto, m’invitava a sedere vicino alle sue ginocchia rannicchiate.

Parlavamo. Lei era impenetrabile.

Ho visto a Tangeri delle More in costume, che tra i due veli lasciavano nudi solo gli occhi, ma attraverso, vedevo fino in fondo alla loro anima. Questa non nascondeva niente, né la sua vita né le sue forme, e io avvertivo un muro tra lei e me.

Sembrava amarmi. Forse m’amava. Ancora oggi, non so che pensare. A tutte le mie suppliche, lei rispondeva con un «più tardi» che non potevo infrangere. La minacciai di partire, mi disse: «Andatevene». La minacciai di violenza, mi disse: «non potrete mai». La riempii di regali, li accettò, ma con una riconoscenza sempre cosciente dei suoi limiti.

Pertanto, quando entravo da lei, le nasceva negli occhi una luce che non era affatto artificiale.

Dormiva nove ore la notte, e tre ore il pomeriggio. A parte questo, non faceva nulla. Quando s’alzava, era per stendersi in vestaglia su una stuoia fresca, con due cuscini sotto la testa e un terzo sotto le reni. Non ce la feci mai a convincerla d’occuparsi di qualsiasi cosa. Né un lavoro di cucito, né un gioco, né un libro le passarono nelle mani dal giorno in cui, per colpa mia, aveva lasciato la Fabrica. Neppure le cure domestiche la interessavano: sua madre faceva la camera, i letti e la cucina, e tutte le mattine passava una mezz’ora ad acconciare la pesante capigliatura della mia piccola amica ancora assonnata.

Per una settimana intera rifiutò di lasciare il letto. Non che si credesse indisposta, ma aveva scoperto che se era inutile passeggiare senza ragione per le vie, era ancora più vano fare tre passi in camera sua e lasciare le lenzuola per la stuoia, dove il costume di rigore intralciava la sua indolenza. Tutte le nostre spagnole sono così: a chi le vede in pubblico, il fuoco dei loro occhi, la vivacità delle loro voci, la rapidità dei loro movimenti sembrano nascere da una sorgente in perpetue eruzione; eppure, appena si trovano sole, la loro vita scorre in un riposo che è la loro grande voluttà. Si distendono su una sedia a sdraio in una stanza dalle tende abbassate; sognano gioielli che potrebbero avere, palazzi che dovrebbero abitare, amanti sconosciuti di cui vorrebbero sentire il peso amato sul loro petto. E così passano le ore.

Per la sua concezione dei dovere quotidiani. Concha era molto spagnola. Ma non so da quale paese provenisse la sua concezione dell’amore: dopo dodici settimane di attenzioni assidue, ritrovavo, nel suo sorriso, le stesse promesse e le stesse resistenze insieme.

Infine, un giorno, non più in grado di soffrire più a lungo quell’eterna attesa e quella preoccupazione minuto per minuto, che angariava la mia vita al punto d renderla inutile e vuota dopo tre mesi vissuti così, presi in disparte l’anziana donna in assenza di sua figlia e le parlai a cuore aperto, nel modo più pressante.

Le dissi che amavo sua figlia, che avevo l’intenzione d’unire la ma vita alla sua, che, per ragioni facili da capire, non potevo accettare alcun legame dichiarato, ma che ero risoluto a condividere con lei un amore esclusivo e profondo da cui non poteva derivarle alcuna offesa.

«Ho ragioni per credere», dissi terminando, «che Conchita m’amerebbe, ma non si fida di me. Se lei non m’ama affatto non intendo costringerla: ma se la mia sola sventura è di lasciarla nel dubbio, persuadetela.»

Aggiunsi che, in cambio, avrei assicurato non solo la sua vita presente, ma la sua fortuna personale futura. E, per non lasciare alcun dubbio sulla sincerità del mio impegno, lascia alla vecchia un bel mazzetto di banconote, incaricandola d’usare la sua esperienza materna per rassicurare la figlia che non sarebbe stata affatto ingannata.

Più emozionato che mai, rientrai a casa. Quella notte non potei dormire. Passeggiai per ore nel patio di casa mia, in una notte splendida e già fresca, ma che non bastò a calmarmi. Formavo progetti senza fine, in vista d’una soluzione che volevo prevedere felice. Al levar del sole, feci tagliare tutti i fiori di tre aiuole e li sparsi per il viale, sui gradini, sulla scalea per fare dei suoi passi fino a me un viale di porpora e zafferano. La immaginavo ovunque, in piedi contro un albero, seduta su di una panca, sdraiata sull’erba, appoggiata coi gomiti dietro le balaustre o alzando le braccia nel sole verso un ramo carico di frutti. L’anima del giardino e della casa aveva preso la forma del suo corpo.

Ed ecco che dopo tutta una notte d’attesa insopportabile e dopo un mattino che sembrava non dover finire più, ricevetti alle undici, per posta, una lettera di poche righe. Crediatelo senza difficoltà, la so ancora a memoria.

Diceva questo:

«Se voi m’aveste amato, m’avreste aspettato. Volevo donarmi a voi ; voi avete chiesto che mi si vendesse. Mai più mi rivedrete.

CONCHITA.»

Due minuti dopo ero a cavallo, e non era ancora mezzogiorno quando arrivai a Siviglia, quasi stordito dal caldo e dall’angoscia. Montai rapidamente, bussai venti volte. Silenzio.

Infine, una porta s’aprì dietro di me, sullo stesso pianerottolo, e una vicina mi spiegò a lungo che le due donne erano partite la mattina in direzione della stazione, con i loro bagagli, e che non si sapeva nemmeno quale treno avessero preso.

«Erano sole?» domandai.

«Completamente sole.»

«nessun uomo con loro ? siete sicura?»

«Gesù! Non ho mai visto altri uomini che voi in loro compagnia.»

«Non hanno lasciato nulla per me?»

«Nulla; ce l’hanno con voi, a sentir loro.»

«Ma torneranno?»

«Dio lo sa. Non me l’hanno detto.»

«Dovranno bene tornare per prendere i loro mobili.»

«No. La casa è ammobiliata. Tutto ciò che gli appartiene l’hanno preso. E adesso, signore, sono lontane.»



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