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La donna e il burattino – Romanzo spagnolo 9

Creato il 16 novembre 2012 da Marvigar4

la donna e il burattino

La donna e il burattino

Romanzo spagnolo

Traduzione dall’originale francese La Femme et le Pantin – Roman espagnol

di Marco Vignolo Gargini

9. DOVE CONCHA PEREZ SUBISCE LA SUA TERZA METAMORFOSI

Era troppo.

Ormai, io vedevo chiaro in quella piccola anima scaltra. Ero stato raggirato come un collegiale e ne ero confuso ancor più che afflitto.

Radiando dalla mia vita passata la perfida bambina, mi sforzai per dimenticarla dall’oggi al domani, con un colpo di volontà, una di quelle intenzioni paradossali di cui le donne s’aspettano sempre il fatale aborto.

Partii per Madrid deciso a prendermi per amante, a caso, la prima ragazza che attirasse i miei occhi.

È lo stratagemma classico, quello che tutti inventano e che non riesce mai.

Cercai di salotto in salotto, poi di teatro in teatro e finii per incontrare una ballerina italiana, ragazzona dalle gambe muscolose che sarebbe stata una gran bella bestia nelle scuderie d’un harem, ma che senza dubbio non soddisfaceva affatto le qualità che ci s’attende da una amica unica e intima.

Lei fece del suo meglio: era affettuosa e disponibile. M’insegnò dei vizi di Napoli di cui non avevo abitudine e che le piacevano più che a me. Vidi che s’ingegnava a farmi rimanere, e che il cruccio della sua esistenza materiale non era il solo motivo di questo zelo tenero e ardente.

Ahimé! E io che non sono riuscito ad amarla! Non avevo alcun rimprovero da farle. Non era né infedele né importuna. Non sembrava conoscere i miei difetti. Non si confondeva con i miei amici. Infine, le sue gelosie, per frequenti che fossero, si lasciavano indovinare e non s’esprimevano affatto. Era una donna impagabile.

Ma io non provavo niente per lei.

Per due mesi mi costrinsi a vivere sotto lo stesso tetto di Giulia, nel suo spazio, nella sua camera della casa che avevo affittato per noi due in fondo della via Lope de Vega. Lei entrava, passava, camminava davanti a me, non la seguivo con gli occhi. Le sue gonne, le sue calzamaglie da ballerina, i suoi pantaloni e le sue camicie si trascinavano su tutti i divani: non ero nemmeno colpito dalla loro influenza. Per sessanta notti, vidi il suo corpo bruno sdraiato accanto al mio in un letto troppo caldo, dove immaginavo un’altra presenza appena la luce si spegneva… Poi scappai, disperando di me stesso.

Tornai a Siviglia. La mia casa mi parve mortuaria. Partii per Granada, dove m’annoiai; per Cordoba, torrida e deserta; per la radiosa Xeres, ricolma dell’odore delle sue cantine; per Cadice, oasi di case nel mare.

Lungo questo tragitto, signore, ero guidato di città in città non dalla mia fantasia, ma da un fascino irresistibile e lontano di cui non dubito più dell’esistenza di Dio. Quattro volte, nella vasta Spagna, ho incontrato Concha Perez. Non è un susseguirsi di casi: non credo a questi colpi di dadi de che reggerebbero i destini. Quella donna doveva riprendermi in pugno, e io dovevo veder passare sulla mia vita tutto ciò che andrete ad ascoltare.

E in effetti tutto si compì.

Fu a Cadice.

Una sera entrai nel Baile [1] locale. C’era lei. Danzava, signore, davanti a trenta pescatori, altrettanti marinai, e qualche straniero stupido.

Dal momento che la vidi, mi misi a tremare. Dovevo essere pallido come la terra; non avevo più respiro, né forze. La prima panca, vicino alla porta, fu quella in cui mi sedetti, e, con i gomiti sul tavolo, la contemplavo da lontano come una risuscitata.

Danzava sempre, ansimante, accaldata, la faccia imporporata e i seni folli, scuotendo con entrambe le mani delle nacchere assordanti. Sono certo che m’aveva visto, ma lei non mi guardava. Concludeva il suo bolero con un movimento di passione furiosa, e le provocazioni delle sue gambe e del busto si rivolgevano a qualcuno a caso tra la folla degli spettatori.

Bruscamente, si fermò, in mezzo a un gran clamore.

«¡Qué guapa!» urlavano gli uomini. «¡Olé! Chiquilla! Olé! Olé! Otra vez!»[2]

E i cappelli volavano sulla scena, tutta la sala era in piedi. Lei salutava, ancore ansante, con un sorrisetto di trionfo e di disprezzo.

Secondo l’uso, lei scese in mezzo ai bevitori per mettersi al tavolo da qualche parte, mentre un’altra ballerina la rimpiazzava di fronte. E, sapendo che là, in un angolo della sala, c’era uno che l’adorava, che si sarebbe messo sotto i suoi piedi davanti a tutta la terra e che soffriva da urlare, lei andava a un tavolo a un altro, di braccia in braccia, sotto i suoi occhi.

Tutti la conoscevano per nome. Sentii dei “Conchita!” che mi facevano venire i brividi dalle dita dei piedi alla nuca. Le offrivano da bere; toccavano le sue braccia nude; lei si mise tra i capelli un fiore rosso che un marinaio tedesco le aveva donato, tirò il codino d’un banderillero [3] che faceva il buffone; finse voluttà davanti a un giovane vanesio seduto con delle donne, e carezzò la guancia d’un uomo che avrei ammazzato.

Dei gesti che fece durante questa manovra atroce che durò cinquanta minuti, non uno m’è uscito dalla mia memoria.

Sono ricordi come questi che popolano il passato d’una esistenza umana.

Visitò al mio tavolo dopo tutti gli altri perché ero in fondo alla sala, ma ci venne. Confusa? o recitando la sorpresa? oh! per nulla! voi non la conoscete. Si sedette davanti a me, batté le mani per chiamare il garçon e gridò:

«Tonio! una tazza di caffè!»»

Poi, con una tranquillità squisita, sopportò il mio sguardo.

Le dissi, a voce bassissima:

«Tu dunque non hai paura di nulla, Concha? Non hai paura di morire?»

«No! e d’altronde non sarete voi che mi ucciderete.»

«Tu mi sfidi?»

«Anche qui, e dove vorrete. Vi conosco, don Mateo, come se vi avessi portato nove mesi. Voi non toccherete mai un capello della mia testa, e avete ragione, perché non vi amo più.»

«Tu osi dire che m’hai amato?»

«Credete quel che vi pare. Voi siete il solo colpevole.»

Era lei che mi rimproverava. Avrei dovuta aspettarmi quella commedia.

«Due volte», ripresi io, «due volte me l’ha fatta! Quel che ti davo dal profondo del mio cuore, tu l’hai ricevuto come una ladra, e sei sparita, senza una parola, senza una lettera, senza nemmeno aver incaricato una persona di portarmi il tuo addio. Che ho fatto perché tu mi tratti così?

E ripetevo a denti stretti:

«Miserabile! Miserabile!»

Ma lei aveva la sua scusa:

«Cosa avete fatto voi? M’avete ingannata. Non avevate giurato che ero al sicuro tra le vostre braccia e che mi avreste lasciato scegliere la notte e l’ora del mio peccato? L’ultima volta, non vi ricordate più? Voi credevate che dormissi, che non sentissi nulla. Ero sveglia, Mateo, e capii che se avessi passato ancora una notte al vostro fianco non mi sarei addormentata senza lasciarmi prendere da voi a sorpresa. Ed è per questo che sono scappata.»

Era insensata. Alzai le spalle.

«E così sei tu a rimproverarmi», le dissi, «quando vedo la vita che meni qui e gli uomini che passano nel tuo letto?»

Si alzò, furiosa.

«Questo non è vero! Vi proibisco di dirlo, don Mateo! Vi giuro sulla tomba di mio padre che sono vergine come una bambina – e anche che vi detesto, perché ne avete dubitato!»

Restai solo. Dopo qualche istante, andai via anch’io.



[1] Letteralmente “Ballo”, un locale.

[2] “Che bella! Olé! Ragazzina! Olé! Olé! Ancora una volta!”

[3] Torero che usa le banderillas.



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