In molti, nelle ultime ore, si stanno domandando provocatoriamente se siano più democratici i governi dei Paesi che si dicono democratici per principio, oppure i governi dei Paesi oggi ritenuti parzialmente o totalmente al di fuori della democrazia.
Le manifestazioni di piazza che stanno andando in scena in moltissime città del continente europeo, mostrano per l’ennesima volta che la violenza dello Stato in Occidente esiste ancora. Quanto giunge direttamente dalle piazze di Torino, Roma, Madrid, Lisbona e Atene è non solo l’evidente indice che le classi subalterne dei cosiddetti PIGS non accettano le politiche antipopolari di austerità e di predazione della ricchezza nazionale nel nome della stabilizzazione finanziaria e della rassicurazione dei cosiddetti “mercati”, ma anche la dimostrazione dell’inconsistenza sostanziale della retorica utilizzata da quasi tutte le classi dirigenti di quei Paesi che da sessant’anni cercano di distinguersi nello scenario internazionale in funzione del principio della presunta superiorità occidentale, per quanto concerne la democrazia e i diritti della persona.
Ma la democrazia, in realtà, non esiste e non è mai esistita, per lo meno nei termini in cui questa viene posta all’interno della società occidentale dai politici e dagli intellettuali di punta. Ogni potere costituito nasce su basi di violenza (guerre civili) e si impone attraverso una progressiva costruzione normativa che regolarizzi il proprio impianto istituzionale, abituando la popolazione a considerarne inviolabili i principi secondo parametri più o meno corrispondenti alle necessità sociali. Questo non significa che i “diritti” siano una semplice invenzione giuridica ma che la loro espressione politica sia, di volta in volta, la risultante di precisi rapporti di forza e dell’evoluzione sociale ed economica del pianeta.
Quando i nostri politici o i nostri giornali hanno la presunzione di considerare questa parte del mondo come la “migliore possibile”, la “più libera” e la “più equa” non va dimenticato che la società occidentale nasce come prodotto della rivoluzione industriale e dell’ordine coloniale, e che il primato tecnologico acquisito negli ultimi duecento anni è pur sempre un dato relativo e temporaneo. Trionfante con l’illuminismo, l’assolutizzazione della superiorità occidentale ha via, via affermato una nuova religione “laicista”, fondata sull’idea assoluta dei cosiddetti “diritti dell’uomo” e sulla loro indiscutibile universalità.
Poco importava agli illustri cantori del giusnaturalismo che, proprio nel nome di questa supremazia politica e morale (white man’s burden), il colonialismo europeo continua a massacrare e predare popolazioni e territori al di là dei mari. L’illuminista inglese David Hume scrisse nel XVIII secolo: «Non è mai esistita una nazione civilizzata che non fosse bianca: sono portato a sospettare che i negri, e in generale tutte le altre specie umane, siano per natura inferiori ai bianchi». Voltaire nel Trattato di Metafisica afferma: «Sbarco nel paese della Cafraria, e comincio a ricercare un uomo. Vedo macachi, elefanti e negri. Tutti sembrano avere un baleno di una ragione imperfetta. Tutti hanno un linguaggio che non capisco e tutte le loro azioni sembrano ugualmente essere relazionate con qualche causa. Se dovessi giudicare le cose per il primo effetto che mi causano, crederei, inizialmente, che tra tutti questi enti l’elefante è l’animale ragionevole».
Seguendo questa logica, dunque, appena qualche secolo prima un cinese o un persiano, entrando in Europa settentrionale, avrebbero potuto affermare le stesse cose a proposito della fantomatica civiltà “bianca” anglosassone, laddove uomini e donne si abbeveravano a fianco dei maiali, le locali popolazioni seguivano ancora un insieme di regole claniche e gli abitanti a malapena erano in grado di esprimersi in una lingua definita.
La Conferenza di Helsinki del 1975 diede certamente un grande contributo al consolidamento del pregiudizio storico in base al quale, in piena Guerra Fredda, l’Occidente – ivi identificato con le nazioni del Patto Atlantico – si sarebbe fatto portatore di valori positivi universalmente validi e globalmente riconosciuti come tali dagli stessi Paesi promotori.
Fu facile, così, imporre nel mondo trilaterale del capitalismo avanzato (Nord America, Europa occidentale e Giappone) l’idea che l’Unione Sovietica e gli altri Paesi del Patto di Varsavia fossero da considerare “dittature” prive degli elementari concetti legati ai “diritti umani”. Si badi bene a questo passaggio: in base all’autoproclamata universalità dei valori espressi dalle democrazie occidentali, se un Paese resta al di fuori dei loro parametri, esso si configura non come un Paese figlio di un’altra civiltà, ma come un Paese al di fuori della civiltà.
E perciò, analogamente all’epoca coloniale, l’intromissione nei suoi affari interni viene solitamente percepita dalle masse occidentali come legittima. Ovviamente, ai fini di una simile falsificazione storica, è necessaria una grande operazione di disinformazione di massa, che anzitutto ripeta in modo continuativo un’invenzione completamente artificiosa per normalizzarla e renderla credibile sebbene sia oggettivamente falsa. Non è un caso che l’utilizzo di termini quali “democrazia”, “libertà”, “dittatura”, “repressione”, “regime” ecc. … abbondi in modo del tutto improprio ed incoerente nei nostri telegiornali e nella comunicazione in genere.
Per legittimare – in chiave antirussa e antiortodossa – agli occhi del mondo occidentale il fatto che tre prostitute debosciate dessero luogo ad orge e blasfemie in Russia, si è ricorsi ad una semplice ma efficace trasfigurazione della situazione specifica: Putin è un “dittatore”, le Pussy Riot combattono contro Putin, dunque le Pussy Riot sono “ribelli” che lottano per la “libertà”. Identico schema viene utilizzato per la Siria, dove migliaia di trogloditi stranieri e di mercenari qaedisti, stipendiati da Arabia Saudita e Qatar, sono stati dipinti come “martiri” su questa stessa base: Assad è un “dittatore”, l’opposizione armata combatte Assad, dunque l’opposizione armata è un esercito che lotta per la “libertà” e l’affermazione della “democrazia”. Per converso, l’esercito nazionale siriano – cioè l’unico esercito regolare costituzionalmente riconosciuto nel Paese siriano – viene descritto come un insieme di militari “lealisti” o di “mercenari” legati alla figura del presidente Assad. Esattamente come avvenuto in Libia, quando a difendere Gheddafi – in base alle “ricostruzioni” della stampa occidentale – ci sarebbero state poche manciate di “fedelissimi”.
Quando la giuria di Oslo, ha assegnato il premio Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo nel 2010, è arrivato il giubilo generale da gran parte dell’intellighenzia culturale dei Paesi occidentali. Liu, nato a Hong Kong quando questa era ancora una colonia della monarchia londinese, nel 1988 dichiarò che la Cina, per “civilizzarsi”, avrebbe avuto bisogno di altri trecento anni di colonialismo.
Quattro anni fa ha fondato il movimento Carta08, ispirato ad un documento politico che cita palesemente l’obiettivo della distruzione della Repubblica Popolare e dell’instaurazione di un sistema di libero mercato sul modello occidentale, dove il potere dello Stato sia ridotto ai minimi termini. Cosa altro dovrebbe fare il governo cinese, se non prendere provvedimenti affinché la sua attività politica disgregatrice ed eversiva sia bandita dal territorio nazionale? Secondo l’opinione dei maître à penser occidentali, invece, queste misure repressive costituirebbero l’ennesima violazione dei “diritti umani”, di cui il Partito Comunista Cinese si sarebbe macchiato.
In tutti questi casi particolari, la promozione dell’anarchia e il boicottaggio dell’ordine costituito sono pienamente legittimati dalle classi dirigenti occidentali per le quali, evidentemente, il principio normativo è nient’altro che carta straccia da utilizzare in base alla propria convenienza e alle necessità che di volta, in volta si presentano per orientare l’opinione pubblica dei rispettivi Paesi. Recentemente il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, ha sottolineato come i governi dei Paesi dell’Unione Europea, che spesso ha tuonato contro alcune repressioni di piazza andate in scena a Minsk nel 2006 e nel 2010, oggi pretendono di impartire lezioni di democrazia mentre ogni giorno danno ordine di disperdere i loro lavoratori in rivolta con idranti e cariche delle forze di pubblica sicurezza.
Il fulcro fondamentale della contraddizione, però, non è la violenza di Stato o di piazza in quanto tale, bensì l’orientamento politico espresso da uno Stato o da una piazza. Proprio restando in Bielorussia, nel 2004 il presidente statunitense George Bush emanò una direttiva al Congresso nord-americano che invitava alla redazione e all’approvazione del Belarus Democracy Act. In quel documento sono contenute accuse gravissime nei confronti del presidente Aleksandr Lukashenko e del governo nazionale, oltre ad esplicite indicazioni all’apparato d’intelligence degli Stati Uniti a sostenere tutti i gruppi di opposizione attivi nel Paese.
Tra questi gruppi vi sono anche e soprattutto realtà violente, terroristi, teppisti e isolati debosciati, che le sigle più “raffinate” degli ambienti filo-europeisti bielorussi (una nettissima ed irrilevante minoranza giovanile che vorrebbe integrare il Paese nella Nato e nell’UE) utilizzano nel ruolo di “manovalanza” per assaltare le sedi istituzionali (come avvenuto nel dicembre 2010 ai danni del Parlamento di Minsk) e per organizzare attacchi mirati contro personaggi politici o semplici cittadini.
In base all’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, qualsiasi Stato membro gode del “diritto naturale all’autodifesa” nel caso in cui la sua sovranità politica e la sua integrità territoriale (fattori ritenuti inviolabili dalla stessa Carta) vengano minacciate da un intervento armato esterno. Rispetto al contesto storico e geopolitico del dettato originale (giugno 1945) oggi molte cose sono cambiate, e se i teorici delle scienze strategiche sono oramai unitamente concordi nel considerare anche il cyberspazio e, più in generale, la sfera della comunicazione (ICT) finalizzata all’ingerenza politica (soft-power) quali parti integranti del quadro multidimensionale del conflitto, è evidente che il Belarus Democracy Act varato dal Congresso degli Stati Uniti nel 2004 e aggiornato dall’amministrazione Obama l’anno scorso, deve essere considerato come una esplicita dichiarazione di guerra degli Stati Uniti contro la Repubblica di Bielorussia.
Le misure repressive adottate dalle autorità bielorusse in occasione dei gravi disordini post-elettorali degli ultimi anni devono, perciò, considerarsi come un insieme di legittimi tentativi di difesa della nazione dalle interferenze e dalle intromissioni esterne di attori evidentemente interessati alla dissoluzione dell’ordine politico ed economico costituito e all’integrazione del territorio nazionale (e delle sue risorse) nel proprio campo geostrategico (e a tal proposito basterebbe prendere atto dell’espansione che la Nato ha avviato verso Est negli anni Novanta, inglobando la Germania Est, l’Ungheria, la Repubblica Ceca, la Polonia, la Romania, la Bulgaria, la Lettonia, l’Estonia, la Lituania, la Repubblica Slovacca, la Slovenia, la Croazia e l’Albania, in attesa di concludere le “integrazioni in fieri” della Macedonia, della Bosnia-Erzegovina, del Montenegro e della Georgia).
Ancor più esplicito è il caso della Siria, dove i Paesi della Nato non perdono occasione per incontrare i membri di un governo-ombra completamente autoreferenziale, privo di qualsiasi legittimità sul piano internazionale, e per sostenere le ragioni politiche dei cosiddetti “ribelli”, terroristi armati che stanno cercando di distruggere l’integrità territoriale della Repubblica Araba a fini eversivi. Poche settimane fa, per di più, gli interventi militari della Turchia oltre il confine siriano, hanno definitivamente tolto ogni maschera al conflitto. Assad ha dunque tutto il diritto di difendere la nazione siriana da un’aggressione organizzata su scala internazionale.
Eppure, la situazione in Europa viene completamente ribaltata: ogni minima evoluzione negli scenari dei Paesi non allineati viene attentamente registrata e soppesata all’evidente scopo di scovare qualche “violazione” nel campo dei “diritti umani”, mentre le repressioni “fatte in casa” nei confronti di operai, disoccupati e giovani – ormai a scadenza quasi settimanale – sono sostanzialmente legittimate dalla classe dirigente nel nome della “pubblica sicurezza” e della difesa del principio dell’ordine costituito, privando dunque la categoria del “diritto” di tutta la sua portata in termini di “socialità” e “solidarietà”. Qualcosa non torna. Non vi sembra?
Fonte: Stato & Potenza 14 Novembre 2012