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La fanciulla e il cavaliere

Creato il 24 settembre 2011 da Fabry2010

La fanciulla e il cavaliereLa casa della fanciulla sovrastava il bordo dell’oceano dalla cima di una scogliera alta e così scura da sembrare nera, la notte. Era una casa bianca con le imposte verniciate di azzurro; ogni sera la fanciulla sollevava dai davanzali i vasi di nasturzi e li poggiava a terra, e poi chiudeva le ante facendole ruotare sui cardini che gemevano di ruggine marina.
La mattina appena sveglia spalancava le imposte dall’interno con una spinta vigorosa, facendole battere contro il muro: un suono secco e sordo per il suo buongiorno alla dimora. Guardava fuori verso l’oceano scrutandone il colore dalla finestra della sua camera da letto, a indovinare pioggia o sole, poi passava alla cucina per la vista sul suo frutteto: aveva diciannove alberi di mele, sempre carichi di frutti grossi e pieni di succo dolcissimo. Era rimasta orfana tre anni prima, ed era andata a vivere da sola in quella casa che le aveva lasciato in eredità sua nonna.
Al villaggio conoscevano tutti la fanciulla e le sue mele, la sua casa solitaria bianca con le imposte azzurre poggiata sul prato arginato solo dal lato dalla scogliera. Venivano a trovarla. Prendevano la sua frutta. Alcuni lasciavano qualcosa in cambio, molti non lasciavano niente, a parte ringraziare con un sorriso. Bussavano alla porta e lei faceva entrare chiunque, offriva le sue mele, e tutti erano contenti.
Avrebbe voluto che qualcuno si fermasse, ogni tanto; che restasse con lei a poggiare i vasi di nasturzi e chiudesse le imposte dall’interno; che restasse per sempre. Offriva la sua frutta perché sapeva che finché la regalava sarebbero tornati. Di giorno la fanciulla aveva quasi sempre compagnia, ma al tramonto se ne andavano tutti; la notte era sempre sola.
Ogni tanto aveva paura di se stessa allo specchio. Guardava i suoi riccioli neri lunghi fino alle caviglie e pensava che non valevano nulla se nessuno glieli pettinava e carezzava. Allora provava a scendere al villaggio, faceva il lungo tragitto a piedi scalzi con il cesto pesante di mele e si faceva notare per le strade, con le sue vesti delicate e i suoi splendidi capelli. Succedeva sempre che qualche uomo la guardasse, vedesse i suoi occhi trasparenti e candidi, e cominciasse a parlarle.
Sperava sempre la fanciulla, sperava nei suoi capelli e nella dolcezza ricca dei suoi doni. Li invitava a prendere i suoi frutti, a addentarli; gli diceva che ce n’erano ancora, nella sua casa. Se loro volevano venire, da lei, sulla collina in cima alla scogliera. Erano incerti, ma andavano. Lei li attendeva con lenzuola fresche e profumate, gli parlava dei nasturzi e della scogliera ripida e impaziente di mare, e di tutte le cose belle che sapeva raccontare. La ascoltavano e rimanevano incantati, per un po’.
Poi si ricordavano che non avevano nulla da offrirle. Non erano preparati, erano lì a mani vuote. E più lei splendeva e più loro si sentivano a disagio perché non avevano niente da donare, nulla per ricambiare. La fanciulla aveva imparato a riconoscere bene quell’imbarazzo, ne sapeva il significato sin dai primi sintomi. Allora il suo tempo interiore si incastrava tra speranza e paura.
Glielo leggevano negli occhi insieme al suo candore che era spaventata, perciò anche loro si impaurivano e andavano via. Alcuni scappavano di nascosto quando faceva buio, senza dirle nulla. Altri farfugliavano scuse a occhi bassi, vergognandosi perché sapevano di aver rubato.
E la fanciulla si trovava sola nella casa, la mattina, con le sue mele neanche finite di mangiare, abbandonate sul pavimento; come non fossero buone, non valessero nulla. Allora ne raccoglieva una da terra e scendeva lentamente la scogliera fino alla piccola spiaggia di frammenti di conchiglie chiare, e la addentava lei quella mela, immersa nelle onde fino ai fianchi, piangendo, mentre i suoi capelli nell’acqua dell’oceano diventavano lisci e lunghissimi, le ondeggiavano intorno e si aggrappavano come funi alle sue caviglie. E la mordeva singhiozzando chiedendosi perché non avessero voluto mangiarla, se era così buona. Perché non erano restati con lei, che aveva steso lenzuola profumate e reso tutto perfetto. Allora desiderava che le funi dei suoi capelli la trascinassero giù nel mare, la trascinassero a farla affogare così non avrebbe più sofferto quegli abbandoni, non sarebbero più esistiti né lei né il suo dolore.
Restava lì per molte ore, finché la marea si abbassava e il tempo asciugava le sue lacrime e i capelli che tornavano ricci liberavano le sue caviglie. Poi risaliva la scogliera lentamente, accumulando a ogni passo una nuova speranza. Prima del tramonto era a casa, lavava le lenzuola in acqua profumata di lavanda e le stendeva sul filo, poi poggiava per terra i vasi di nasturzi, chiudeva le imposte e andava dormire, sognando prima di addormentarsi che qualcuno un giorno si sarebbe fermato; però era sempre più stanca di andare scalza fino al villaggio con la cesta pesante delle sue mele.

Un giorno vide arrivare da lontano un cavaliere. Non lo conosceva, non lo aveva mai visto. Montava una giumenta grigia e possente, vestito da un’armatura scura, la testa coperta del tutto da un elmo. Si fermò davanti a lei e smontò da cavallo, tolse l’elmo in silenzio e senza sorriderle; era diverso da tutti gli altri. Aveva occhi profondi e capelli corti e duri come fili di ferro, lo sguardo severo. La guardò dall’alto e lei si sentì molto piccola, ma senza paura. Si rese conto di essere  stanca, invece, stanca al punto da non riuscire a correre a prendere un frutto per offrirglielo. Gli disse soltanto «Vuoi assaggiare una mela? Sono buonissime.»
«No, ho del mio.» le rispose. E poi aggiunse: «Sto tornando a casa dalla mia famiglia, non mi fermerò che cinque giorni da te, per far riposare il mio destriero.»
La fanciulla avrebbe voluto obiettare ma non ci riuscì. Il cavaliere stava già togliendosi l’armatura e portava dentro casa la pesante sacca di cuoio che aveva sulle spalle. Ispezionò ogni stanza e infine uscì a osservare il frutteto, guardando ogni cosa con estrema attenzione. Lei gli camminava affianco, raccontando, ma lui di rado le rispondeva. Venne il tramonto e lei preparò una cena di pesce squisito, imbandì la tavola su cui aveva steso una tovaglia candida decorata con fiori dello stesso profumo del vino fresco che servì. Mangiarono tenendosi per mano e una volta finito lui la prese in braccio e la portò nel letto, le accarezzò a lungo i capelli e il corpo, e si fece accarezzare. La fanciulla era estasiata dalla pelle vellutata del cavaliere, dai suoi capelli di ferro, dai suoi baci bollenti e il modo in cui lui la teneva, con una forza piena di dolcezza che non aveva mai sentito prima. Alla fine lui si addormentò con la testa sui suoi seni e una lacrima minuscola appesa al ciglio.

La mattina il cavaliere aprì gli scuri e rimise sul davanzale i vasi di nasturzi mentre lei preparava la colazione, poi aprì la sua sacca e ne tirò fuori un’accetta.
«A che ti serve?» gli chiese la fanciulla perplessa.
«A tagliare cinque dei tuoi meli.»
«Ma no! Perché? Ti prego, non farlo, ne ho bisogno!»
«Non è vero, non hai bisogno di diciannove meli. Hai bisogno di una staccionata, invece.»

Si mise a lavorare cominciando a dare colpi di accetta al melo più grande e più bello, mentre la fanciulla piangeva. Lo buttò giù e le disse di staccarne i frutti e farne una composta, così avrebbe avuto da mangiare per sé durante tutto l’anno.
La fanciulla raccolse le mele e le portò in cucina per lavarle e sbucciarle, poi le mise a bollire con miele e cannella, mentre lui continuava a dare colpi ai legni, tirandone fuori assi e pali. Nel pomeriggio cominciò a costruire un pezzo di staccionata con secchi colpi di martello, e lo coprì con le fronde tagliate dai rami. Poi prese una vanga e si mise a scavare lungo il perimetro esterno, e ci piantò dei semi di alloro. «Crescerà,» le disse «e non sarà più così facile vedere la tua casa e il frutteto da fuori.»

Ogni momento veniva qualcuno a trovare la fanciulla, giovani donne o uomini. Lui li scrutava a braccia conserte. Se li vedeva a mani vuote guardava la fanciulla negli occhi, e lei non li invitava a entrare. Furono molti quelli che andarono via.
La fanciulla era felice, non vedeva l’ora che arrivasse la fine del giorno per imbandire di nuovo una tavola speciale per loro due, e passare ancora una notte insieme. Fu di nuovo profumo di spezie, di vino, di pelle carezzata, e notte di viso contro i suoi seni.

I giorni successivi continuarono così. Il cavaliere abbatté altri quattro alberi, completò il recinto e lo coprì con le fronde dei rami tutto intorno, piantando davanti la siepe di alloro che l’anno successivo sarebbe bastata a proteggere la casa da sguardi interessati e indiscreti. La fanciulla preparava conserve riempiendo barattoli che riponeva con amore nella dispensa.
Gli amici diminuirono con il passare dei giorni; alla fine restarono in pochi, quelli che da sempre le avevano portato qualcosa, e la fanciulla li poté apprezzare di più, nel silenzio ormai calmo del suo giardino.

Venne il quinto giorno.
Il cavaliere sulla porta della casa bianca con le imposte azzurre si guardava attorno a braccia conserte, ed era soddisfatto. La fanciulla lo raggiunse e lui la sollevò da terra per farle vedere meglio quello che aveva costruito per lei, e anche lo spazio guadagnato nel frutteto che permetteva ora di scorgere, tra gli alberi rimasti, l’orizzonte dell’oceano. Lei sorrise e gli mostrò la sua dispensa di barattoli pronti e chiusi, pieni di dolcezza, e poi lo portò davanti al suo specchio. Gli diede un paio di forbici e gli ordinò di tagliarle i capelli. Il cavaliere sgranò gli occhi e disse di no, ma lei gli mise le forbici in mano con un gesto deciso. Allora le si inginocchiò accanto e cominciò a tagliare, all’altezza dei fianchi. Con ogni ciocca che cadeva la fanciulla si accorgeva che i suoi capelli non erano più tutti neri ma che c’erano molti fili bianchi.
Il cavaliere diede l’ultimo colpo di forbici con gli occhi cupi, poi raccolse i riccioli tagliati tra le mani, uscendo dalla stanza. La fanciulla si avvicinò allo specchio e si guardò attentamente, fissandosi nelle pupille e poi osservando il resto: il suo viso, la sua chioma, le spalle, i fianchi, le gambe, i suoi piedi. Tornando a fissare le sue pupille si disse che non era più una fanciulla ma una donna.

Al mattino lui raccolse ogni sua cosa e indossò l’armatura. La donna gli portò la giumenta fuori dalla porta e prima di montare in sella lui la abbracciò un’ultima volta baciandola sulla bocca. Indossò l’elmo e spronò il cavallo, allontanandosi al passo. Si girò solo una volta a guardarla, accigliato.
Quando non riuscì più a vederlo la donna scese la scogliera e si immerse nell’oceano calmo, fino ai fianchi. Solo le punte dei suoi capelli si bagnarono, le caviglie restarono libere e lei si sentì integra. Non le aveva sottratto nulla, non aveva morso neanche una delle sue mele. Sorrise nel pianto e lo ringraziò dal cuore per la sua casa piena e protetta, per il suo vero amore.

Il cavaliere proseguì fino a mezzogiorno poi si fermò; legò la giumenta a una quercia e aprì la bisaccia sul fianco della sella: ci trovò una grossa mela, rossa e profumata, che la donna doveva avergli infilato lì di nascosto prima che partisse. La prese con due mani e la addentò piangendo. Chiedendosi cosa lo aspettava a casa, e se sarebbe mai potuto tornare dai suoi seni, un giorno.

(illustrazione di Flavia Correani)



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