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La ferita ucraina: intervista all’Ambasciatore Fabrizio Romano

Creato il 24 febbraio 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

ukraine

di Maria Serra e Giuseppe Dentice

Dopo un paio di settimane di relativa calma a seguito delle dimissioni del Premier Mykola Azarov, dell’abolizione della legge anti-proteste e dell’approvazione di un’amnistia per i dimostranti antigovernativi, la crisi in Ucraina è repentinamente precipitata: nel giro di pochi giorni – non senza gravi episodi di violenza – si è giunti al tentativo di tracciare una road map di tipo consensuale e mediata a livello internazionale, alla destituzione del Presidente Viktor Yanukovich, alla scarcerazione del leader dell’opposizione Yulia Timoshenko e all’imminente formazione di un governo incaricato di guidare il Paese per lo meno fino alle prossime elezioni anticipate del 25 maggio.

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Una situazione estremamente confusa e in divenire – specialmente per ciò che riguarderà il futuro assetto statale se dovessero prender piede le istanze autonomiste delle aree orientali del Paese che rigettano quanto sta accadendo a Kiev – di cui abbiamo cercato di far chiarezza con l’Ambasciatore d’Italia in Ucraina, Fabrizio Romano. Già Ambasciatore a Tblisi, Primo Consigliere presso l’Ambasciata d’Italia in Berlino, Primo segretario presso l’Ambasciata d’Italia in Mosca e Capo dell’Unità di Crisi della Farnesina, dal gennaio 2012 è il massimo Rappresentante del nostro Paese a Kiev.

L’Ucraina dieci anni dopo la Rivoluzione Arancione: lo scenario politico – e non solo – da allora è molto cambiato e lo scontro a cui abbiamo assistito nell’ultimo periodo è diverso dal movimento dell’epoca. Con la scarcerazione del leader di Patria, Yulia Timoshenko, e con la nomina del suo braccio destro, Oleksandr Turchinov, alla guida transitoria del Paese, si può paradossalmente parlare di un completamento di quel processo rivoluzionario? Più precisamente, come mai c’è stata quest’accelerazione della crisi mentre a novembre-dicembre 2013 la situazione era rimasta sostanzialmente bloccata?

Sicuramente tra la Rivoluzione del 2004 – quando i cittadini scesero in piazza per protestare contro i brogli elettorali del candidato filo-russo Yanukovich – e quella di oggi possiamo trovare delle analogie ma anche delle differenze: in particolare quella di dieci anni fa apparteneva a quella categoria di movimenti conosciuti come “rivoluzioni colorate” che si sono diffuse in numerosi Paesi dell’ex blocco sovietico che hanno tentato di staccarsi dall’influenza russa. Le caratteristiche della situazione che si è venuta a creare oggi a Kiev sono invece più strettamente legate alle vicende interne ucraine e al tempo stesso appartengono ad una nuova generazione di politici piuttosto che agli stessi della rivoluzione del 2004.

Relativamente alle ragioni dell’accelerazione della crisi non credo sia ancora possibile operare una valutazione storica – anche perché gli eventi che si stanno producendo sono ancora in corso – ma è possibile limitarsi alle considerazioni che sorgono dall’essere testimoni di questi eventi. Non sono affatto convinto che la nomina di Turchinov alla guida del Parlamento, e che farà le facenti funzioni di Capo di Stato, sia la conclusione di un processo importante e così significativo come quello che sta accadendo in Ucraina. Quel che si può dire con certezza è che alcuni mesi fa, a seguito della decisione della dirigenza ucraina di rimandare la firma dell’Accordo di Associazione di Vilnius e del Trattato tecnico ad esso allegato che avrebbe permesso poi l’entrata in vigore di alcuni meccanismi di libertà di trasferimento delle merci, sono cominciate delle proteste di piazza da parte di giovani generazioni, di studenti e di gruppi della società civile che si sono successivamente evolute. Da una “Maidan 1.0” si è passati ad una “Maidan 2.0”, ossia ad consolidamento del movimento di protesta, che da occasionale è diventato in qualche modo stabile: sono state occupate le strade principali della città, così come alcuni edifici delle amministrazioni pubbliche. Dunque la protesta si è radicalizzata e da un tentativo di spinta nei confronti della dirigenza per la firma dell’accordo con l’UE si è passati ad un altro tipo di protesta che rifletteva istanze ben diverse, fino alla richiesta delle dimissioni dello stesso Presidente. In questa protesta si sono poi inseriti con maggiore o minore rigidità alcuni partiti di opposizione, i quali hanno conferito alla protesta un ulteriore carattere.

La nuova situazione politica su quali basi di compromesso poggia e quali sono gli obiettivi di breve-medio termine del governo che sta per insediarsi?

Durante il mese di gennaio ci sono stati degli scontri che hanno prodotto le prime vittime tra le ali più dure della protesta e le forze di polizia. È seguita una pausa che ha fatto pensare ad un’evoluzione positiva della crisi e che si è anche concretizzata con delle proposte operative da parte del Presidente, come quella di nominare il Primo Ministro e il vice Primo Ministro tra i quadri dell’opposizione fino ad altri tipi di concessioni e compromessi. Fatto sta che quando questo processo politico sembrava finalmente avviato, seppur lontano dal raggiungere obiettivi concreti e realmente soddisfacenti per le parti, siamo arrivati a martedì 19, quando una manifestazione è sfociata nel giro di pochi minuti in uno scenario di guerriglia urbana. Ciò ha richiesto una missione da parte di tre Ministri degli Esteri dell’UE – Laurent Fabius, Frank-Walter Steinmeier e Radoslaw Sikorsky, rispettivamente di Francia, Germania e Polonia – e di un plenipotenziario russo (Vladimir Lukin) che si è concretizzata nel raggiungimento di un accordo costituito da una serie di punti [1]. Il giorno dopo lo scenario è completamente mutato: Yanukovich ha lasciato Kiev, parte dei Ministri non risultavano reperibili e la Maidan aveva preso possesso dell’amministrazione presidenziale. Il Capo di Stato si è poi espresso da Kharkiv e, pur dichiarando di non rassegnare le dimissioni, ha fatto sì che la Rada non solo nominasse un successore del Presidente del Parlamento – Volodymyr Rybak, anch’egli allontanatosi – ma anche che prendesse a legiferare, disponendo, tra l’altro, della scarcerazione di Yulia Timoshenko e annunciando nuove elezioni per il prossimo maggio. Il prossimo obiettivo che la Rada si è di fatto posto è quella della formazione del governo e della nomina del Primo Ministro.

La fuga di Yanukovich nell’est del Paese ricorda di fatto quanto il Paese sia essenzialmente diviso in due. Lucio Caracciolo in un suo recente editoriale su Limes ha provocatoriamente parlato di “effetto Balcani in Ucraina”. Quanto è realistico questo scenario o quanto è per lo meno plausibile che alcune regioni richiederanno una maggiore autonomia per non per parlare di una rivendicazione d’indipendenza (vedi Crimea e governatorato di Leopoli)?

La domanda è naturalmente fondata. In realtà anch’io ho più domande che risposte. Sulla base della mia esperienza, sviluppatasi anche durante la mia permanenza in Georgia come Ambasciatore nel periodo della “Rivoluzione delle Rose” del 2003, non escludo alcun tipo di scenario. Quello balcanico è sicuramente una possibilità, così come è realistico supporre una maggiore richiesta di autonomie – che tuttavia non coinciderà con una forma di governo federale – o, ancora, il mantenimento dello status quo con una nuova struttura di potere che in qualche modo dovrà misurarsi con quanto è accaduto. E quello che è successo è una ferita profonda per l’Ucraina non solo limitatamente al breve periodo di riferimento, ma anche alla storia del Paese in generale. È vero che all’inizio del Novecento e specialmente dopo la fine della prima guerra mondiale – chi ha letto “La guardia bianca” di Bulgakov conoscerà sicuramente lo spaccato della guerra civile russa del 1919-20 – Kiev è stata teatro di scontri anche cruenti tra fazioni che si sono alternate al potere anche nel giro di breve tempo. Ciò a cui stiamo assistendo è uno scenario molto mutevole. Mi auguro che la fase critica sia stata superata, anche perché questa ha comportato un numero molto elevato di vittime e quando succedono queste cose le priorità assolute sono la pacificazione e la riconciliazione; poi le forme di governo possono essere più o meno adatte o raffinate, ma sono certamente un problema secondario alla necessità della tenuta dello Stato e della convivenza civile.

Secondo la definizione che ne dà Samuel Huntington nel suo “The Clash of Civilizations”, l’Ucraina appartiene alla categoria dei cosiddetti “Paesi in bilico”: quale potrebbe essere nel breve-medio periodo l’evolversi dei rapporti con l’UE (e in particolare con alcuni dei suoi Stati membri, ossia Polonia e Paesi baltici che hanno avuto un ruolo attivo nelle ultime vicende) e quali con la Russia?

Ovviamente l’UE è un interlocutore di primaria importanza: abbiamo visto l’impegno e la consapevolezza crescenti che l’Europa e le sue istituzioni hanno dimostrato di fronte alla crisi ucraina e all’importanza del Paese. Dovremo aspettare la nomina del nuovo governo per capire cosa succederà e se quest’ultimo intenderà accelerare il cammino per la firma dell’Accordo di Associazione con Bruxelles che Yanukovich aveva messo in stand by. La Polonia e i Paesi baltici sicuramente hanno giocato un ruolo importante, ma li farei rientrare tra gli interlocutori all’interno dell’Unione Europea più che attori in qualche modo individuali. Per quanto riguarda la Russia, infine, credo che sia emerso in maniera incontrovertibile che Mosca debba essere considerato interlocutore principale insieme ad altri nella soluzione alla crisi ucraina. Da quel che ho avuto modo di evincere è che non vi è un rifiuto da parte delle autorità russe di collaborare e dialogare con il nuovo governo ucraino. Occorrerà dunque avere un governo per avere più chiara la situazione e per capire come potranno svilupparsi i rapporti sia con l’UE sia con la Russia.

* Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)

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* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)

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Photo credit: Reuters

[1] L’intesa prevedeva la riduzione dei poteri presidenziali e il ripristino della Costituzione del 2004; la convocazione di consultazioni presidenziali anticipate e l’istituzione di nuovi meccanismi elettorali oltre che di una nuova Commissione elettorale; l’apertura di un’inchiesta sulle violenze sotto l’osservazione congiunta di Governo, opposizione e Consiglio d’Europa; la garanzia da parte delle autorità centrali di non imporre lo stato di emergenza o di altre misure implicanti l’uso della forza; dal canto loro le opposizioni hanno promesso una progressiva smobilitazione degli edifici e dei luoghi pubblici occupati.

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