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La fiera

Da Marcofre

L’ottavo racconto breve: La fiera.
Buona lettura.

La vecchia chiude la porta di casa, si fa il segno della croce e scende le scale; un passo alla volta, si appoggia alla ringhiera di metallo, nera, fredda. Sono le sei e mezza di mattina, indossa un cappotto pensante, un po’ liso, un berretto di lana della buon’anima di suo marito. Nel ’99 gli è venuto un colpo, lei credeva di durare al massimo una settimana, un mese, un anno. Ne sono passati oltre dieci, e per gli abitanti di vicolo Crema è una specie di istituzione; in forma, secca come un chiodo, sarà per quello forse. Il suo è un organismo che centellina ogni risorsa, perciò dura di più. Cammina piano, il tempo che passa sembra accumularsi sulla sua schiena, perché è un poco più gobba, anno dopo anno, ma lì tutti sono certi che supererà il secolo.

Non gliene importa granché, non è un traguardo che fa per lei, sono idee strane che ha la gente di questi tempi. La guardano, come se fosse un esemplare da museo, una rarità da indicarsi l’un l’altro, o per dire: toh, anche stamattina è fuori dal letto, non è morta, non ci tocca chiamare l’ambulanza perché se la vengano a prendere.

In casa bene o male fa tutto lei: pulisce, compra un po’ di roba, si fa da mangiare, stira. Non ha nessuna difficoltà quando deve cucire, infilare il filo nella cruna dell’ago, alla faccia della cataratta. Certo, dovrebbe operarsi, il prossimo anno. E’ uno scherzo, dicono tutti, un intervento che si sbriga in una mattinata, sarà: a lei gli scherzi non sono mai piaciuti.

Di solito non si alza così presto, sta a letto sino alle sette, tanto non ha niente da fare, a parte invecchiare che non sembra, ma è pur sempre un lavoraccio infame. C’è la fiera di Santa Lucia, vuole essere tra i primi a recarsi alla chiesetta, poi sbrigherà un paio di commissioni: il pane, un po’ di verdura, e si chiuderà in casa. Troppa confusione; da giovane le piaceva, andava avanti e indietro per buona parte della giornata, col fidanzato, poi marito, no niente figli, la felicità non deve mai essere completa.

Adesso le fa venir mal di testa, e un senso di vertigine, quella folla che occupa i portici sino a sera tardi. E fanno rumore, con quelle batterie e chitarre, si credono di essere a Sanremo, al festival.

Sulla via, i furgoni e i camion scaricano la merce, le bancarelle iniziano a occupare la carreggiata, i vigili sorvegliano e riscuotono l’imposta per l’occupazione del suolo pubblico, i carri attrezzi portano via qualche macchina. C’è sempre qualcuno che vive da 30 anni in città, e non si ricorda di una sola data, il 13 dicembre, quando la via principale e quelle limitrofe si svuotano di auto, autobus, furgoni e motociclette, per riempirsi di merce commestibile e non, e tanta gente, più o meno festante.

La vecchia percorre i portici verso il mare, strisciando i piedi, nelle scarpe troppo grandi; anche quelle erano di suo marito. Ogni tanto si ferma, si soffia il naso in un fazzoletto di tela, scuro, getta un’occhiata a quello che viene scaricato. Appoggia gli occhi chiari su quella gente, sulla merce che viene estratta dai camion, dai furgoni; tutto automatico, si schiacciano un paio di pulsanti e si alza o si abbassa, oppure si spingono su ruote certi affari che chissà come si chiamano, ci vorrà la patente per usarli, e fanno un mucchio di fracasso.

Tira su col naso, fa due passi verso un paio di bancarelle in allestimento. Statuine per il presepe, grandi, medie, piccole, chissà se pure quelle arrivano dalla Cina, da quel Paese arriva di tutto, oramai, e poi alberi di Natale di ogni genere, grandezza, colore. Un assortimento di palline, stelle di natale, festoni, luci, tutto inscatolato con cura, che occupa metri e metri di spazio, ogni anno aumenta di varietà e numero, non credeva fosse possibile crearne di così diversi. Poco oltre, dall’altro lato della via, appare il cibo: torrone, salami, formaggi, porchetta che già fa bella mostra di sé sul piano, pronta a essere affettata, e servita calda. Dolci, giocattoli, pile di scatole che racchiudono camicie, scarpe, stivali, maglie, sciarpe, qualcuno avvia il gruppo elettrogeno portatile, verifica l’illuminazione. La vecchia crolla il capo, e si affretta per quanto può verso la destinazione.

Percorre la salita, fino alla tabaccheria già aperta, entra, saluta; a terra a sinistra, sono sistemate quattro scatole di cartone che contengono le candele di varia grandezza e prezzo. Ne prende solo una, la più economica, paga, saluta con un sorriso, che non scalfisce l’umore burbero del negoziante, e scende verso la chiesa. Ficca la mano nella tasca del cappotto, l’orologio era di suo padre e marcia ancora alla perfezione, di quelli da caricare a mano, con delicatezza per non spezzare la molla; sono in pochi quelli in città in grado di ripararlo, e chissà quanto se lo fanno pagare, un lavoro simile. Tutto va con le batterie, automatico, e se si rompe si butta; anche verso le cose c’è meno affetto.

Sono le sette, e il cancello è ancora chiuso.

Una volta a quell’ora c’era folla, e la chiesa era aperta, non toccava aspettare al freddo; alza gli occhi al cielo, sarà una bella giornata, serena, c’è da sperare che non si alzi il vento, o saranno guai. Si soffia il naso e tossisce; tutti gli anni il medico le consiglia di fare il vaccino contro l’influenza, lei rifiuta. L’anno prima, di gennaio, era andata allo studio medico, per via di un certo dolore ai piedi che la notte non le lasciava chiudere occhio. Il titolare non c’era, l’infermiera le aveva spiegato che aveva un po’ d’influenza.

- Ma il dottore non fa il vaccino? -. Aveva chiesto.

- Sì, lo ha fatto.

- E c’ha l’influenza?

- Però senza vaccino sarebbe stato peggio -. Aveva spiegato la ragazza, con un sorriso.

- A me non pare. Io non l’ho fatto e sono fuori dal letto. Lui lo ha fatto, ed è a letto.

Dopo qualche minuto giunge una coppia, marito e moglie, mentre le macchine lì accanto sfrecciano senza troppi riguardi. Passano un paio di carri attrezzi, coi lampeggianti in funzione, sterzano a sinistra per ridiscendere verso il centro, ci sono parecchie macchine da portare via.

Arriva di corsa una donna, corti capelli biondi, una cinquantina d’anni:

- E’ ancora chiuso?

- Eh, – dice la vecchia, – se la prendono comoda pure i preti.

Osserva oltre il cancello, l’edificio è sotto il livello stradale, quasi un secolo prima si affacciava sul mare; c’era la spiaggia dove adesso affondano i piloni del corto viadotto dell’Aurelia.

- Torno dopo, tanto -. Dice la donna, sorride, e si allontana verso il centro.

La vecchia passa da una mano all’altra, la candela avvolta in un foglio di carta, ha dimenticato sul piano del tavolo della cucina i guanti, e il freddo le fa dolere le dita corte, che da anni non riesce più a stendere completamente. Le macchine continuano a passare, sempre più numerose, grosse, ma non c’era la crisi, si chiede tra sé e sé; sospira. La gente parla perché ha la lingua in bocca, e non sa cosa sia la crisi. Ai suoi tempi, a Natale c’era solo un’arancia, poche caramelle, e un freddo cattivo come la guerra. Che poi, per chi non ha soldi, freddo e guerra sono la stessa cosa, ammazzano tutti e due, se sei sfortunato, e ti trovi nel posto sbagliato nel momento sbagliato.

Batte i piedi per terra, un’altra occhiata all’orologio, e dal fondo della via sbuca il prete, cammina piano piano, eppure mica è vecchio come lei, potrebbe muoverli di più, quei bei piedi.

- Siete già qui? -. Chiede abbozzando un sorriso; fruga nella tasca, recupera un mazzo di chiavi, e cerca quella giusta. Un tipo fortunato perché la trova al primo colpo, la infila nella serratura, la ruota e spinge il cancello.

La campana della Torretta batte le sette e mezza quando la vecchia scende la corta scala di pietra. Il prete entra da una porta laterale, toccherà aspettare ancora. Il traffico sulla via sottostante scorre con ordine, placido, poi il mare addomesticato, la banchina dove forse oggi, o domani, attraccherà la nave da crociera.

Quando finalmente si apre la porta, la vecchia è la prima a entrare, il segno della croce, si avvicina all’altare, e aspetta che qualcuno arrivi, prenda la candela, l’accenda e la metta a consumarsi sul portacandele.

Sempre ad aspettare, pensa la vecchia, la testa piegata un po’ di lato, gli occhi socchiusi, sotto le palpebre flaccide; questo oppure quello, c’è sempre qualcosa o qualcuno che deve arrivare, senza il quale non si può fare altro, andare oltre. Nel frattempo prega; a parte qualcuno che venga a prendersi la candela, le resta da aspettare solo la morte, a 91 anni non fa effetto pensarci. A dire la verità non l’ha mai spaventata, i vivi sono peggiori della morte.

Arriva un tipo con baffi neri, basso, agli angoli degli occhi penzola ancora un po’ di sonno; le prende la candela, cerca nella tasca della giacca un accendino, e l’accende, la sistema sul portacandele. Giunge un po’ di gente, c’è persino un giovane, avrà trent’anni, mentre altri prendono posto in fondo alla chiesa, sugli scranni di legno scuro.

La vecchia si segna, ed esce. Percorre la strada verso casa, vorrebbe sbrigarsi perché il rumore la fa star male, dicono che i vecchi diventano sordi, lei ci sente benissimo. Il prossimo anno, tornerà ad accendere una candela nella chiesa; e se nel frattempo sarà diventata dei più, pazienza.

Quel corpo un po’ storto, stanco anche nei gesti semplici, cerca il silenzio, ormai.

S’infila sotto i portici, e cammina verso casa, senza badare più a niente, e a nessuno.

Il traffico sulla strada, è una colonna di auto, camion e furgoni che procedono lentamente, non sono nemmeno le otto e sarà in quella condizione sino a sera tardi. Solo le motociclette e gli scooter avanzano, e sopra tutti, i gabbiani volteggiano sulle acque del porto, silenziosi. Come se avessero compreso qualcosa.


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