-Di Andrea Ciprandi
Uno dei principali effetti della globalizzazione, se non invece la sua causa, è l’esistenza di organismi planetari di gestione delle attività. Effettivamente è difficile capire se il Comitato Olimpico Internazionale e la FIFA siano nati per far coesistere realtà sportive altrimenti destinate a non poter dare vita a un movimento globale piuttosto che invece gruppi di dirigenti si siano riuniti in detti oganismi col preciso scopo di fare dello sport un fenomeno mondiale e via via sempre più manipolabile in ragione dell’esistenza di poche federazioni onnipotenti a cui fare capo.
Ci si sente dire che il parere della gente non conta e che bisognerebbe essere addentro alle cose per poter esprimere un parere autorevole. Non si può però dimenticare che lo sport, anche quando si rende necessaria una sua gestione complessa che tenga presente diversi fattori, è e resta della gente. E’ innanzitutto degli atleti, che sono i primattori, ma anche di chi lo segue: da sempre infatti esiste il connubio sportivo-tifoso e non c’è atleta che gareggi solo per se stesso o che lo farebbe senza pubblico.
L’esempio forse più eclatante di ingestione degli interessi economici nello sport fu certamente la scelta di Atlanta, città della Coca Cola e della CNN, quale sede delle Olimpiadi del centenario al posto di Atene, cui l’organizzazione di quell’edizione spettava di diritto vista l’origine dei Giochi. La Grecia dovette invece accontentarsi di ospitare quelli successivi – a dimostrazione del fatto che era stata scartata per privilegiare determinati interessi commerciali e non perché oggettivamente incapace di ospitare la manifestazione, altrimenti non sarebbero bastati solo altri quattro anni per prepararsi.
Oggi invece la polemica riguarda i prossimi Mondiali di calcio, che si terranno nel 2014 in Brasile.
Romario, ex giocatore di fama mondiale e ora deputato, è il portavoce di un sentimento popolare che trattandosi di Brasile ha un peso maggiore del normale e non dovrebbe essere trascurato. Che poi si decida di soffocarlo e si finisca per riuscirci è una possibilità tanto reale, al limite della probabilità, quanto agghiacciante.
Due sono i punti toccati negli ultimi anni da Romario, considerato incontrollabile e ingestibile sul campo quando giocava tanto quanto lo è ora in politica. Sul primo c’è ancora speranza, trattandosi della richiesta di mantenimento anche in occasione dei Mondiali della legge brasiliana che garantisce il pagamento di solo metà biglietto a studenti e anziani – mentre è già previsto un certo numero di entrate gratuite per gli indigenti, come già successo in Sud Africa, anche se questo provvedimento rischia di essere più che altro un’operazione diplomatica limitata nei numeri, diciamo un modo tutto sommato poco dispendioso per una macchina da soldi come la FIFA che solo i più ingenui prenderanno per un’iniziativa umanitaria. Sul secondo invece Romario si è già dovuto arrendere: non gli resta che rammaricarsi per la ricostruzione secondo criteri troppo moderni di molti stadi storici, col risultato che a seconda dei casi parecchi impianti scompariranno, saranno rimpiazzati oppure resi irriconoscibili e tanti campi non avranno comunque più l’atmosfera di un tempo.
Alcuni sorridono di fronte a queste richieste e recriminazioni, altri proprio non le capiscono. A questo si è arrivati, tanto distante dallo spirito sportivo e quindi umano può essere la visione di chi gestisce… lo sport.
Nella polemica sui prezzi dei biglietti, che Romario vorrebbe contenuti in generale e dimezzati per le categorie citate, era intervenuto lo scorso anno l’allora Ministro per lo Sport, Orlando Silva. Quel che aveva detto è che la legge di cui parla Romario non è federale (cioè non riguarda tutto il Brasile) bensì statale e in particolare dello Stato di Rio de Janeiro, quindi non esisterebbe alcuna preclusione all’eventuale decisione della FIFA di imporre sempre e comunque il prezzo intero. In attesa dell’approvvazione della normativa che regolerà tutte le attività durante i Mondiali, prevista per questo marzo, c’è sentore di resa in partenza da parte dei principali rappresentanti brasiliani a partire dalla presidente Dilma Rousseff, passando per il nuovo Ministro per lo Sport, Aldo Rebelo, che si sta limitando a parlare di grande e irrinunciabile opportunità per il paese, per arrivare soprattutto al presidente della Confederazione Brasiliana di Calcio, Ricardo Teixeira, la cui intenzione di diventare un giorno numero uno della FIFA è cosa nota e ha le sue ovvie, tristi conseguenze in termini di assecondamento della politica di quell’organismo. Ognuno secondo le proprie competenze, avrebbero potuto prodigarsi per l’estensione di una legge statale a tutto il paese e avrebbero anche potuto farlo in anticipo rispetto alle trattative con la federazione mondiale; invece, evidentemente per motivi (leggasi interessi) politici e conseguentemente economici hanno fatto per l’ennesima volta del Brasile un feudo di Blatter. Non va dimenticato infatti che sempre lì, nel 2000, era stata organizzata una sorta di Campionato Mondiale per Club allargato – di rottura rispetto alla Coppa Intercontinentale, che col tempo si contava di soppiantare. A quell’edizione, che il Brasile accettò di ospitare, si obbligarono a partecipare sotto minaccia di gravi ripercussioni in caso di rifiuto anche club che avrebbero preferito restare fedeli al calendario canonico (si pensi al Manchester United, che di fatto dovette rinunciare a disputare la Coppa d’Inghilterra il cui terzo turno si accavallava a quella kermesse); alla fine il progetto naufragò e a quel torneo non ne seguirono altri, ma la FIFA ebbe comunque l’occasione per saggiare la fedeltà di alcuni affiliati.
Romario ha anche fatto notare il disequilibrio fra la durata della manifestazione, che sarà di un mese o poco più, e il lungo tempo per cui il suo paese dovrà sopportare gli stravolgimenti che la macchina organizzativa della FIFA comporta una volta che i Mondiali si saranno conclusi. Se infatti il sopruso costituito dall’accantonamento di leggi in cui Brasile o comunque alcuni suoi Stati credono può essere amaro ma anche un male passeggero, cosa dire degli stadi ammodernati nel modo più impersonale possibile?
La tradizione non è cosa da poco e va proseguita, preservata. E’ bello perdersi in racconti ambientati in luoghi divenuti magici e il senso di appartenenza a una certa storia passa spesso dal riferimento ad essi. Cinquanta, cento o anche più anni anni possono autenticamente continuare a vivere attraverso colori, maglie e stadi, che sono tra i mezzi più importanti attraverso cui tutelare la tradizione nel calcio. Considerarli e rispettarli è quindi imprescindibile se è di sport che si parla e per lo sport si vuole dimostrare rispetto.
Il nuovo Maracanã che si sta costruendo sulle macerie di quello eretto per i Mondiali del Cinquanta assomiglierà al Luzhniki di Mosca o all’Olimpico di Roma come rifatto per Italia ‘90. Un bellissimo impianto moderno, ma un vero scempio considerato che i suoi due caratteristici ed enormi anelli sono stati sacrificati a favore di uno unico con la stessa incuranza per il passato che si era dimostrata quando il vecchio Wembley di Londra, già privato delle due storiche Twin Towers, fu ricostruito su più livelli dalle linee morbide secondo il modello più diffuso fra i tanti impianti moderni, da cui si distingue giusto per le dimensioni. Il Maracanã di un tempo, per giunta, oltre ad avere una sua struttura inconfondibile continuava a garantire agli spettatori che lo desiderassero la possibilità di assistere alle partite in piedi: sopravviveva infatti un’area senza seggiolini, insolita di questi tempi e quindi da conisderarsi una forma di riguardo per la tradizione che fino ad oggi, evidentemente, in Brasile conta.
Non si vede allora perché alla FIFA si sia voluto concedere quel che non avevano sentito il bisogno di fare i brasiliani dopo la sconfitta interna nella finale del Cinquanta contro l’Uruguay, quando per cancellare un evento così traumatico erano arrivati addirittura ad abbandonare la maglia bianca della Nazionale introducendo quella verde-oro ma non avevano nemmeno considerato l’idea di eliminare il luogo in cui la tragedia si era consumata, appunto il Maracanã, che anzi acquisì un’aura di sacralità e a distanza di più di sessant’anni, fosse rimasto quello di sempre, avrebbe potuto offrire l’occasione di chiudere un cerchio in caso di vittoria del Brasile. Non ci fosse dietro dell’altro, qualcosa che ha a che fare con l’incondizionata fedeltà a una certa causa (quella del padre padrone dal calcio mondiale, Blatter, e dei suoi finanziatori), sarebbe infatti bastato ammodernarlo come per esempio si è fatto con lo stadio Olimpico di Berlino per i Mondiali del 2006: ancora oggi, infatti, l’impianto in cui Jesse Owens vinse quattro medaglie d’oro di fronte allo stato maggiore del partito nazista, mantiene sia la struttura originaria che alcuni settori che risalgono ancora a quelle storiche Olimpiadi, datate 1936. Ma si sa: il Brasile non è la Germania.
Le conclusioni che si possono trarre da questa vicenda che è prossima alla sua conclusione sono di due tipi. Da un lato c’è la conferma del grande potere che hanno poche persone, i cui interessi sono trasversali alla società, dall’altro la consapevolezza che tante altre si oppongono a questa organizzazione del mondo. Per chi non fa dipendere i propri umori dall’andamento generale delle cose, dalla descrizione ufficiale che se na dà e dalla visione che si vuole offrire c’è quindi ancora motivo di allegria, anche se come quella che viene immediatamente in mente quando si parla di Brasile è venata da tristezza e malinconia.