Lo aveva detto, che prima o poi con Murakami ci avrebbe riprovato. E così la scorsa settimana, mentre si recava al nord per le giornate di E.T., la ‘povna ha aperto il Kindle, e si è tuffata in un nuovo romanzo. Che le è piaciuto molto. Ed è per questo ben contenta di suggerire per il Venerdì del libro di Homemademamma.
La fine del mondo e il paese delle meraviglie (ma la traduzione italiana rende poco conto della variazione Hardboiled-Wonderland della seconda parte) denuncia fin dal principio la vocazione binaria della sua struttura, così come (forse) della sua voce narrativa. Seguendo un modulo che nel 1985 era ancora (relativamente) originale (e che invece poi è dilagato nella letteratura mondiale degli ultimi venti anni come prassi), il romanzo è costruito a capitoli alterni: quelli dispari ambientati in un non meglio definito “Hardboiled Wonderland” (che rimanda in maniera esplicita tanto a Carroll quanto a Chandler), quelli pari in un universo poco più che bicromatico denominato “La fine del mondo” appunto, luogo utopico, o forse distopico, nel quale la presenza di passioni e sentimenti si sfalda, così come i colori. Una narrazione in entrambi i casi autodiegetica consegna il lettore al punto di vista del protagonista, che lo trascina a seguire, in un mondo, così come nell’altro, le sue avventure.
Se l’Hardboiled Wonderland si rivela un mondo futuribile e cibernetico, dominato dalla teoria del complotto, la Fine del mondo è una città circondata da mura spesse, nella quale si arriva, ma dalla quale poi più non si esce, i cui abitanti attendono a lavori e compiti che non hanno né interesse, né utile e, soprattutto, sono privati della loro propria ombra (che viene lasciata prigioniera a morire, per poi ricevere una sepoltura rituale che compie anche il processo di acquisizione della cittadinanza da parte del suo antico proprietario) per poter ottenere il diritto di risiedere in città. Oltre agli uomini, vi abitano anche delle bestie dal manto (a seconda delle stagioni) dorato o bianco, e con un unico corno in mezzo alla fronte: le sole creature che hanno il diritto di varcare i confini della città, anche se poi sempre vi ritornano, in un ciclo eterno fatto di vita e morte, che si ripete, sempre uguale a se stesso, ogni giorno e ogni stagione. In entrambi i casi il protagonista si ritrova a vivere situazioni inaspettate, alle quali deve fare l’abitudine, attraverso un percorso di acquisizione di consapevolezza che occhieggia alla Bildung solo per negarla in maniera perentoria. L’Hardboiled Wonderland è il negativo sotterraneo e buio (in senso proprio, perché il protagonista, ritrovatosi suo malgrado al centro di una incomprensibile cospirazione, dovrà affrontare un viaggio nelle gallerie sotto la metropoli, alla ricerca di uno scienziato geniale e pazzo, singolare riedizione di un contemporaneo Stregatto, che detiene la chiave per spiegare il suo destino futuro) di una Tokio che già vive in pieno il post-moderno. Là sotto – proprio come Alice (e guidato dalla nipote dello scienziato, potremmo dire un Bianconiglio? Se non più banalmente un Virgilio) – il protagonista (senza nome) incontrerà una serie di avventure e meraviglie: sculture religiose, sanguisughe, laghi sotterranei, persino un altro popolo (quello degli Invisibili, pericolosi esseri che abitano il buio, e che talvolta riemergono nei cunicoli della metropolitana per tendere agguati agli uomini – un elemento, questo, su cui Murakami ritorna anche in altri romanzi, ma che qui rievoca esplicitamente le ossessioni delle leggende metropolitane). Per arrivare infine ad ascoltare (dallo scienziato) l’oracolo sulla propria esistenza, riuscire a riveder le stelle e affrontare a sua scelta le ultime ventiquattro ore che (come da sentenza) gli rimangono di vita.
Intanto, nei capitoli pari, il protagonista, appena arrivato lì, si stabilisce nella città, accetta di essere separato dall’Ombra (che rappresenta, ma questo, lui come il lettore, lo potrà capire solo in seguito, il cuore e i sentimenti), trova un suo posto nell’ordine di questo nuovo universo (ricevendo un lavoro, quello di Lettore di Sogni), inizia a fare delle conoscenze (tra le quali una ragazza di cui, forse, si innamora). Parallelamente – e su richiesta della sua sempre più indebolita Ombra (che riesce a vedere per poco, e sotto rigido controllo, e che lontano da lui sta morendo inesorabile) – inizia a disegnare la mappa di questo strano posto, nel quale tutto (le mura, il fiume, i boschi) sembra avere identità e coscienza, e (ciò che è più perturbante) adattarla a suo uso e consumo. Moltissimi sono i modelli letterari per questa parte (che – con la sua ossessione per l’eterotopia, la mappatura e gli spazi – bene interpreta un’altra declinazione, tutta topologica, anch’essa postmoderna), così come i futuri romanzi che a questo Murakami possono dichiarare di essersi legittimamente ispirati. Il primo e più ovvio è probabilmente la fiaba filosofica di Wilde del Pescatore e la sua anima, così come i molti racconti di ombra che partono dal Peter Schlemhil di Chamisso e arrivano (passando per un percorso tradizionale dell’ombra perturbante e fantastica) fino a Buzzati. Tra i molti altri possibili, vale la pena di ricordare le ovvie Città invisibili, perché la coincidenza tra aspirazione cartografica del tutto e sua finale coincidenza con la mente del viaggiatore, del narratore (e dunque dell’estensore) della carta è elemento imprescindibile di questa parte di narrazione (che anch’essa si nutre soprattutto di conversazioni, di ascolto e di racconto, così come era, per Calvino, nel dialogo costante tra Kublai Khan e Marco Polo). E poi – per lo spunto filosofico, ma anche la scansione in capitoli che riflettono mondi (uno terrestre e uno più frutto di invenzione della coscienza), la riflessione sul valore del ricordo, del sentimento, le atmosfere rarefatte – vale la pena di ricordare anche La storia infinita di Michael Ende, un romanzo che deve il suo principale successo a una destinazione giovanile di primo livello, ma che in realtà interpreta in modo inquieto e problematico una serie di temi topici per la letteratura di quegli anni.
Si tratta di un percorso destinato a diventare tradizione letteraria in breve tempo, e che vede riprendere motivi cardine di questo romanzo da parte di successivi autori e testi (basta pensare all’immagine della città sottilmente utopica, o distopica, in romanzi come La trilogia della città di K di Agota Kristof o Tutti i nomi di Saramago).
E se alla fine di tutto i due filoni narrativi si re-incrociano all’interno della coscienza (del narratore), tutto viene revocato paradossalmente in dubbio: l’Hardboiled Wonderland – così come la Fine del mondo – sono frutto di sogno, delirio, residuo (o visione) inconscio del protagonista (con ironica allusione a teorie freudiane e post-freudiane). E non importa se uno sembra luogo di approdo privo di dolore e atarassico, l’altro il frutto di un incubo acido almeno quanto la versione Disney delle avventure di Alice. In entrambi i casi, si rivelano soluzioni escapiste (e per questo discutibili) rispetto al vivere nel mondo. Che è l’unica scelta che viene dichiarata possibile – pure se per via di paradosso – all’essere umano e mortale, in quanto tale.