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“La fine del mondo storto” di Mauro Corona (Ed. Mondadori)
Mettiamo che un giorno il mondo si sveglia e scopre che sono finiti petrolio, carbone ed energia elettrica. (…) “Sacramento che disgrazia!”… “Non sappiamo usare le mani.”Ai tempi delle vacche obese ognuno pensava per sé, non esisteva collaborazione né rispetto. Ci si azzuffava per un nonnulla, si accumulavano ricchezze a discapito di onestà e buon senso. Poi una mattina tutto finisce. La tecnologia – idolatrata – regna su un mondo silenzioso e buio. I lampioni non illuminano più le strade, dai termosifoni non si alza calore, i motori si fermano. È la fine del mondo storto. Gli uomini iniziano a morire come mosche, almeno due terzi della popolazione mondiale non arriveranno alla primavera successiva.
L’inverno della morte bianca e nera, della paura e del terrore, miete vittime soprattutto tra i malati, i cagionevoli di salute, gli anziani e i bambini. I mestieri ammirati ai tempi d’oro dell’umanità non servono a nulla ora che l’energia elettrica non pompa luce e le pance sono vuote. I sopravissuti migrano verso le montagne, dove c’è legna in abbondanza. In città si brucia tutto, mobili, libri, quadri, i soldi (ma quelli bruciano poco e non scaldano). Fa freddo e la fame attanaglia le menti. E così quell’inverno sono dieci inverni accatastati uno sull’altro.
Chi sopravvive non si arrende, torna ad essere umile, va in campagna in cerca di contadini. I contadini sanno ancora usare le mani, mungono gli animali, sanno cavare cibo dalla terra. Così come i montanari, che cacciano uccelli e colgono erbe medicinali. Tornano in auge marchingegni arcaici per catturare animali nei boschi, i fucili sono solo ferro da buttare ora che nessuno produce più le munizioni. Nelle città c’è un silenzio che intorce le budella. Non si litiga, né si parla a vanvera, si pensa solo a non morire. L’inverno della paura fa riavvicinare le persone, ci si unisce per arrivare al giorno dopo, nella speranza che il freddo se ne vada e torni il sole a scaldare le ossa magre. Chi non muore non si ammala più, fortificato dalla fame e dai sacrifici. In quelle condizioni, i rimasti in piedi son diventati saggi. La natura è venerata, rispettata, amata.
Agli albori della primavera si torna pian piano a sorridere, il verde invade le città, ogni pezzo di terra viene messo a coltivazione. Frutta, verzure, latte, farina, formaggi. L’uomo non muore più di fame. I giorni sono diventati meno duri, la speranza torna a consolidarsi, la vita mette i piedi sulla testa della morte. Saggezza e prudenza conducono gli uomini verso una nuova era, in un mondo depurato dalle ingiustizie e dalle frustrazioni. Si torna a parlare, nelle notti d’estate, attorno ad un fuoco. Si aguzza l’ingegno, ci si scambiano consigli. Non esistono padroni, né sudditi.
In montagna, per ogni albero tagliato se ne piantano altri dieci, si pensa al futuro, non si spreca nulla e tutto viene equamente diviso. Senza rendersene conto, stanno creando una società perfetta, dove non ci sono gerarchie né subordinati . Il mondo forse ha davvero imparato la lezione, si è pulito ed è pronto ad andare avanti. Ma l’uomo ha in sé il germe della discordia, un’insoddisfazione latente che, a pancia piena, risale a galla. Tornano i primi ladri, e con loro gli assassini. Non c’è niente da fare, l’uomo è un cane che si mangia la coda. Gira in cerchio fino a consumarsi. In questo suo nuovo romanzo Mauro Corona è come vento di montagna, tagliente e disincantato.
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