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"La fine" di Salvatore Scibona

Creato il 28 ottobre 2011 da Sulromanzo

fineSalvatore Scibona è nato nel 1975 a Cleveland, in Ohio, nel bel mezzo degli Stati Uniti. I suoi bisnonni però venivano da lontano; alcuni di origine polacca e gli altri, la maggior parte, italiani. Siciliani per essere precisi. Scibona è stato a lungo un autore mancato, scrittore di short stories di poco conto, che per arrotondare sgrassava piatti sporchi in un KFC. Finiti gli studi vinse una borsa Fulbright, iniziò a leggere Aristotele, Kant, Omero, imparò il greco antico e venne in Italia per apprendere l'italiano e preparare il suo primo romanzo. Dieci anni dopo ha pubblicato La fine, sua opera d'esordio, uscita in America nel 2008 e subito classificata tra i finalisti al National Book Award. L'anno dopo il romanzo ha vinto alcuni prestigiosi premi americani come il Young Lions Fiction Award e il Norman Mailer Cape Cod Award for Exceptional Writing. Nel 2010 Salvatore Scibona è entrato nella classifica dei 20 migliori narratori americani under 40 del «New Yorker». E questo, fidatevi, oggi è davvero qualcosa.

Quest'anno La fine è stato pubblicato anche in Italia, dalla neonata casa editrice 66thand2nd, fondata da Isabella Ferretti, con la traduzione di Beniamino Ambrosi. Scibona ha realizzato in autunno, in Italia, una sorta di tour promozionale del romanzo, passando anche per la mia Catania, dove l'autore stesso aveva soggiornato mentre scriveva il suo lavoro, al numero 16 di Piazza Verga.

Di Verga Scibona ha ereditato lo stile asciutto, secco, personalissimo, inimitabile e l'affezione per gli «umili», i personaggi piccoli ed appartati, immersi nella vita fino al collo e spietatamente impegnati a nuotarci dentro con tutte le loro forze. È stato scritto che La fine è «un'epopea dei vinti» ed è vero, in parte. La fine è un'epopea, una storia che parte dal passato, affonda gli artigli nella storia e strappa il senso del futuro, altalena avanti e indietro nel tempo; una storia in un certo senso epica. Ma è un'epica senza glorie né eroi, senza vincitori né vinti. Una storia come tutte le storie, una vicenda come tutte le vicende. Ed è solo così che Aristotele, Platone, Agostino possono convivere nelle riflessioni di alcuni immigrati italoamericani, a qualche generazione di distanza da casa, piantati nel mezzo di un continente che li ha accolti senza conoscerli e che sembra guardarli da lontano. Di questi personaggi ha scritto Flavia Vadrucci su «Pulp», «Rocco, Costanza, Lina, Enzo, Ciccio. Tre generazioni di italoamericani in un sobborgo di Cleveland, Ohio, alle prese con il Novecento. Come acqua e calce, in una malta che dà forma al destino, scolpisce le facce, decide le vite, Scibona impasta la terra, la lingua, la fatica, il pane, il sangue, l'amore, la violenza, il dolore... Persone normali del secolo scorso, nel Paese giusto con i nomi sbagliati arrancano sulla strada. Sputano inciampano, bestemmiano, ma vanno, mentre “la tufa” incolla i vestiti e la neve abbraccia le ginocchia». È l'epopea dei “chiunque” che portano sulle spalle un macigno sproporzionato con la naturalezza dei grandi personaggi, nello spessore di una scrittura lapidaria e lampante. Dentro questo affresco si disegna la vita, in un secondo, in un gesto, in una parola, in una frase, in un attimo. Ogni tassello comprende il mosaico, ogni voce fa l'intero discorso; «se riuscissi a comprendere un solo attimo riuscirei a comprendere ogni attimo».

Scibona ha scritto un capolavoro, uno di quei libri enormi che non si possono mai abbracciare completamente, ma lo ha fatto con semplicità e disinvoltura, e per questo, in maniera assolutamente originale. La storia di tante storie, forse di tutte le storie. La storia di alcuni personaggi che sono tutti i personaggi. «Ogni persona ha la sua storia, ed è molto più complicata della grande storia. La storia è una valigia in cui mettiamo gli individui per comodità, ma è sempre un errore dedurre un uomo dalla storia. Si può solo fare viceversa».

E su ogni storia torreggia «la fine», il limite verso cui, insieme, ci spostiamo. Una fine che c'era sempre stata, era lì dall'inizio, e per questo, non può davvero farci paura.

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