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L'illusione di disinnamorarsi con la dialettica interiore
Con un suono di corno il vento arrivò, scosse l’erba. Ti penetra dentro, quasi non te ne accorgi. D’improvviso, con il petto sul catafalco durante la mesta cerimonia di lacerazione definitiva, sputi – pentendoti subito – rigurgiti weiningeriani, vuoi vedere – ti chiedi – che quell’insana mente aveva invece imbroccato la questione femminile? No, ti rispondi di no, non è possibile, quella frase di Sesso e carattere: “Io non asserisco dunque che la donna sia cattiva o antimorale, ma al contrario che non può neppure esserlo; essa è soltanto amorale, volgare”. No, ti ripeti.
Tornano alla mente numerosi titillamenti sui nostri corpi, s’incancreniscono in te senza lasciarti fiato. Poi, come la forza che ti ha sbattuto nel fittizio mondo erotico la mente per qualche minuto, così con altrettanta forza rimani immobile, inerme.
Non per fare il verso a nomi sacri, neppure per un inusitato desiderio di zappare la terra d’un gerbido terreno, ammesso che non sia invece lo squallido porto dove di necessità si debba compiere la manovra d’attracco muscolare, è quantomeno sorprendente, dannato fato, che si faccia corrispondere la morte d’un sentimento con la morte del proprio corpo, anzi, più precisamente, un assassinio su te medesimo, un suicidio. Aprire scorci di morte tragica, abbandonare il viaggio terreno subito, quale vantaggio in una vita che contrae e risolve la melanconia in sé col buio? Semmai uno spleen dolce, come se si fosse sul Ponte Vecchio di Firenze un sabato sera, un lasciarsi trasportare nel fiume della rassegnazione, un lento morire.
Il Belbo gli scrisse che la scrittura era un surrogato della vita, quand’è che si tocca il fondo ci si chiede. La morte giunge senza accorgersene, rincarò la dose a Pavese. Già era in atto un processo di decomposizione psichica. Il giorno dopo sfondarono la porta, circa venti bustine di sonnifero: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.
Le vie sono imprevedibili a volte, basta una parola in più, o in meno, e in pochi giorni l’asintoto è definito, la curva della sanità mentale sempre costantemente lontana, in silenzio. Il timore del silenzio, prima orale, poi sul corpo. Si cercano spiegazioni e significati, significati e spiegazioni. Palese che non sia la strada idonea, sono le futilità a mutare il corso delle cose, sempre. Si pensi al naso che pende quando la moglie Dida lo fa notare al marito Vitangelo, tutto nasce in quel preciso istante, una nuova consapevolezza, l’umorismo pirandelliano che si rivela. Gli uomini sono naturalmente inclinati al bene a sentir Guicciardini, sennonché all’ultimo istante ci si smarca, o ci si improvvisa adulatori od opportunisti, le inutilità divengono utili, le sciocchezze incassano apprezzamenti. Ecce homo.
Si è figli di altro. Come Ivan Karamazov del filosofo Solov’ëv o come Endre Ady delle avanguardie francesi, tutto partecipa di consequenzialità, nessuno immune. E reagisci con acredine, capita che alcune prospettive siano spazzate via, sì, per li occhi passa come fa lo trono, che fer’ per la finestra de la torre, e ciò che dentro trova spezza e fende. Il vento arriva e scruti l’erba che si dimena, in un abissale e asfittico e irresolubile pentimento di ciò che fu. Cerchi, quasi fosse un mantra, le ipotetiche spiegazioni e i ragionevoli significati. Nei momenti di lucidità tenti di convincerti che la controparte non fosse nient’altro che Catte, la sorella della ben più interessante Bettina: Goldoni anticipò Freud senza dubbi per taluni aspetti. Tenti pure di convincerti che l’errore fosse di forma, non comprendendo invero che la sostanza s’amalgama alla forma appunto; a un mediocre studente di latino del Rinascimento non sarebbe passato per la testa di distinguerle, oggi il migliore di un liceo classico tende a farlo di continuo. Mala tempora.
Non è diverso nei sentimenti, ti concentri sulle formalità, meglio, sugli aspetti formali, non riesci a fondare un unico giudizio di valore che includa con prudente severità l’abito e il corpo. Ingenuo. ‘Eh, ma c’è l’amore’, pensi, sei uno sciocco! L’amore si nutre di forme quotidiane, di piccole e irrisorie azioni che sconvolgono l’umore e gli equilibri, donando talvolta inquietudine e disequilibri. Ma le inquietudini e i disequilibri vanno trattati come segni visibili e invisibili del presente, se la comunicazione insistentemente procede imperfetta fra gli amanti, la relazione non può che indebolirsi con l’andare del tempo. E non saranno certe libertà passionali a mutarne il corso; e non saranno neppure i buoni propositi a farlo; urgono soluzioni, quindi avanzino, si mettano in pratica, se da entrambe le parti si desidera. Ma qui sorge un nuovo problema: è o non è viva la dialettica interiore dell’individuo? In altre parole, quanto una persona parla con se stessa nelle fasi di mancanza di bussola? E soprattutto quale tipo di dialettica si innesca nelle dimensioni mentali? Un primo passo nella storia di ognuno di noi è, inchinandosi ad Aron, rintracciare le logiche, non l’insana e romantica visione d’un amore fatale, conchiglia che raccoglie tuttavia i peggiori metalli pesanti del mare delle coppie, nonostante la bellezza esterna. Forse il confine fra vera poesia e poesia indotta è per la maggior parte delle persone, incluso per il sottoscritto, del tutto oscuro, lo si percepisce nella sua crudezza quando un amore finisce.
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