“La follia dello scientismo” è il titolo di un articolo del professore di scienze biologiche dell’università del Sud Carolina, Austin L. Huges, pubblicato sulla rivista “The New Atlantis”, in cui l’autore descrive appunto la degenerazione del pensiero scientista, per il quale taluni scienziati vorrebbero attribuire alla scienza campi di competenza della filosofia, così da dichiararla ormai obsoleta, analizzando il fenomeno nei suoi caratteri fondamentali e riportando numerosi esempi di inconsistenza filosofica delle teorie pseudoscientifiche che si presume dovrebbero scardinare il ruolo della filosofia.
L’autore si chiede, dunque: “Lo scientismo è difendibile? È vero che le scienze naturali forniscono una spiegazione soddisfacente e ragionevole (…) di ogni fenomeno dell’universo? Ed è vero che la scienza è più in grado, o persino l’unica ad esserlo, di rispondere alle domande che un tempo si ponevano i filosofi?”.
Innanzitutto, fa intendere Hughes, la filosofia ha un ruolo fondamentale nel definire le “regole” della scienza, che è necessariamente soggetta, ad esempio, alla logica elementare che, se non padroneggiata e conosciuta a sufficienza, può rappresentare un grave ostacolo per lo scienziato. Ancora di più, la filosofia è necessaria a definire e comprendere la scienza stessa: è ciò che succede nelle teorie essenzialiste, che sostengono una chiara distinzione tra scienze e filosofia e un ruolo necessario per ognuna, tra le quali c’è il criterio di falsificabilità di Karl Popper, per il quale una teoria è scientifica solo se risulta possibile pensare un’evidenza empirica che la dimostri errata: tutto il resto, ovviamente, cade al di fuori del campo della scienza.
Esistono tuttavia teorie che identificano la scienza con le “istituzioni sociali” che la rappresentano e con coloro che la praticano: i sostenitori di queste teorie “istituzionali” arrivano talvolta ad utilizzare i “fattori istituzionali” come criteri di qualità della scienza, che non necessita più, in questo modo, dell’epistemologia. La debolezza di questa definizione di scienza risiede nella sua natura essenzialmente circolare: “Scienza è semplicemente quello che gli scienziati fanno”. L’inaffidabilità delle istituzioni scientifiche, inoltre, è palese (nel peer-reviewed si possono testimoniare condizionamenti dettati da pregiudizi, vendette personali, eccetera) e gli scienziati non sono certo esenti dalle corruzioni presenti in tutti gli ambienti abitati da esseri umani.
Hughes, comunque, individua tre campi tradizionalmente filosofici che si pretende spesso di studiare con gli strumenti della scienza, arrivando a conclusioni migliori di quelle dei filosofi: metafisica, epistemologia, etica.
Metafisica. “La filosofia è morta”, sostengono Hawking e Mlodinov in “The Grand Design”, e tocca alla scienza rispondere a domande quali: “qual è la natura del reale?” “Da dove viene l’universo?” “L’universo ha bisogno di un creatore?” Tuttavia, in contrasto con simili posizioni, si pongono chiaramente le corrispondenze tra la moderna cosmologia scientifica ed alcune concezioni tradizionali riguardanti la creazione dell’universo (la teoria del Big Bang di Lemaitre è un esempio, o le varie forme del principio antropico). “È forse, in parte, in risposta a queste apparenti coincidenze”, scrive Hughens, “che nasce una grande letteratura professionale e popolare dedicata, negli ultimi decenni, alle teorie sul multiverso.”. Ma se queste teorie possono, in qualche modo, allontanare la conclusione che l’universo sia “fine-tuned”, fatto apposta per l’umanità, non possono evitare le domande fondamentali della metafisica suscitate dal fatto che esiste qualcosa piuttosto che niente. Questi argomenti falliscono, infatti, nel distinguere tra essere necessario e contingente: che l’universo possa essere contingente non è affatto un’idea nuova, e di fatto la terza prova di San Tommaso d’Aquino (che definisce Dio come l’essere necessario in sé stesso) prevede che esistano esseri contingenti e mantiene la stessa validità teorica, multiverso o meno. E se, per le leggi della probabilità (su cui si basano Hawking e compagnia), è “certo” che in una moltitudine di universi ci sia quello giusto per permettere la nascita dell’uomo, tale certezza non ha nulla a che fare con la necessità: il fatto che, lanciando migliaia di volte una moneta, diventi praticamente certo che esca, almeno una volta, testa piuttosto che croce non ha nulla a che fare con l’evento necessario perché questo sia possibile: l’esistenza della moneta! Allo stesso modo, le teorie del multiverso continuano a non spiegare come mai il multiverso stesso (o la matrice del multiverso) esista.
Epistemologia. “Come mai siamo in grado di riconoscere le leggi della fisica? Come possiamo essere sicuri che tale conoscenza sarà sempre migliore, sino a diventare totale?” La risposta comune nell’ambiente scientista è: evoluzione, applicata anche all’epistemologia a partire da W.V.O. Quine. Egli sostiene, infatti, che la selezione naturale avrebbe favorito lo sviluppo del discernimento tra vero e falso poiché credere il falso sarebbe dannoso; più recentemente, anche le teorie scientifiche sono state considerate oggetto della selezione naturale. Ora, sebbene la predisposizione ad accumulare informazioni garantisca un certo vantaggio evolutivo, non è affatto ovvio che ci siano sempre dei vantaggi evolutivi nel conoscere meglio la realtà: la teoria dei quanti o l’analisi del DNA non sembrano avere conseguenze sulla sopravvivenza della specie in senso darwiniano. Anche in biologia, oggi, si tende sempre meno ad aspettarsi che ogni tratto di ogni organismo sia spiegabile con la selezione positiva: molte caratteristiche di organismi sorsero da mutazioni che non furono selettivamente favorite né sfavorite. Parlare di un processo darwiniano di selezione tra idee culturalmente trasmesse è al massimo una blanda analogia, con implicazioni fortemente fuorvianti: permette speculazioni che sembrerebbero poter spiegare ogni singola caratteristica umana. Inoltre, in ogni caso, questi argomenti possono al massimo aiutare un minimo a spiegare perché l’uomo sia in grado di comprendere il mondo, ma non perché il mondo sia in sé comprensibile.
Etica. L’etica è probabilmente la branca della filosofia più tenacemente attaccata dallo scientismo, che tende solitamente a sostenere il relativismo morale: mentre la scienza riguarda l’oggettivo ed il fattuale, l’etica rappresenta soltanto il sentire soggettivo delle persone: non c’è posto per il giusto e lo sbagliato universali. Storicamente, in tutto questo, è stata coinvolta la biologia evolutiva: il darwinismo sociale, che dalle suggestioni di questa nacque, servì a giustificare il capitalismo senza regole, si tentò poi di “correggerlo” con l’eugenetica perché, ironicamente, l’evoluzione biologica dimostrò di andare in verso opposto rispetto a quella economica (dopotutto ha come elemento centrale la riproduzione, non il capitale), quindi occorreva “fermare gli inadatti che si riproducono come conigli”, nonostante ciò non avesse senso da un punto di vista darwiniano (che avrebbe giudicato inadatte proprio le classi agiate e poco (ri)produttive). Passando alla sociobiologia e alla psicologia evolutiva, si lascia il piano politico per concentrasi sul personale o, meglio, sull’intimo: ecco che spuntano fuori “storie proprio così” che spiegano la natura “adattativa” di ogni sorta di comportamento sessuale. Dato che comportamenti come l’infedeltà e lo stupro esistono, la selezione naturale dovrebbe aver favorito tali comportamenti, quindi certamente lo ha fatto: ecco come raccontare storie le fa diventare dei fatti (mentre non sono altro che speculazioni, per lo meno nella stragrande maggioranza dei casi). La mossa successiva, scrive Hughens, è solitamente deplorare tali comportamenti: fanno parte della nostra eredità, ma oggigiorno non li approviamo. Ma se “noi ora sappiamo” che i comportamenti egoistici dei nostri avi sono immorali, come siamo arrivati a saperlo? Su quali basi diciamo che qualcosa è sbagliato se il nostro comportamento non è altro che una conseguenza della selezione? E se desideriamo di essere moralmente migliori dei nostri antenati, siamo liberi di esserlo? O siamo programmati per comportarci in un modo che ora, per qualche motivo, deploriamo?
Parte di questo approccio evoluzionistico mira, naturalmente, a smontare la morale: se essa deriva dalla selezione naturale, dicono, non può riferirsi ad alcuna verità etica oggettiva. Una possibile replica potrebbe consistere nel sostenere che, semplicemente, quella che s’è evoluta è la capacità di comprendere la natura umana, e che le proposizioni etiche derivino dalla comprensione di tale natura: ma questo è ciò che sosteneva Aristotele nell’Etica Nicomachea! Eppure non tutti gli scientisti riducono l’etica all’evoluzione. Alcuni, come Sam Harris, si basano sull’utilitarismo: il criterio per giudicare la moralità di un comportamento consiste nel contributo che tale comportamento offre al “benessere delle creature coscienti”, così si cerca di aggirare la distinzione fatti-valori concentrandosi solo sui fatti, ma si finisce poi per affermare certi valori su altri, e senza discuterli. Harris, ad esempio, “dimentica” di definire quel “coscienti”: non è forse vero che la coscienza è strettamente legata alla dimensione temporale? Il benessere di esseri che saranno coscienti (gli embrioni), o che potrebbero esserlo di nuovo (i pazienti in stato vegetativo) non conta nulla? E perché? E se ad Harris interessano solo le creature coscienti nel momento presente, perché mai non consumiamo all’istante tutte le risorse del pianeta per trarne il più possibile, fregandocene delle generazioni future? Ma ancora, con quali fattori si calcola il benessere? Harris si appella alle neuroscienze, bene, ma il fatto che sappiamo quali sono le differenze tra l’organismo di una persona ben nutrita e quello di una che sta morendo di fame non contribuisce certo gran che alla soluzione del problema della fame nel mondo: il fattore che fa la differenza non è interno, ma esterno, ed è il cibo! E sapere che il sistema nervoso reagisce in un certo modo in uno stato di malnutrizione non aggiunge un bel nulla alla discussione riguardante il problema, che consiste nel comprendere come evitare che proprio quelle condizioni attivino certi comportamenti del sistema nervoso, se vogliamo vederla da quel punto di vista. Il fulcro del problema, poi, si fa palese quando ci si mette a parlare dei comportamenti propriamente etici: Harris ricava, dai suoi dati, che le azioni dei criminali vengano determinate da qualche combinazione di “geni sbagliati, famiglia sbagliata, idee sbagliate e sfortuna”. Ora, tralasciando la storia dei geni che ci riporta all’eugenetica, la domanda etica non è “quali sono le condizioni che formano una buona persona?”, ma “Come possiamo fare in modo che tutti vivano in circostanze che non li costringano a diventare criminali?” Semplice: con complesse discussioni di filosofia, diritto, politica che portino a capire quale sia la vita buona e come si possa garantirla. Ciò che fa lo scientismo è, semplicemente, presentare come soluzioni originali quelli che non sono altro che i termini da cui prendono parte discussioni iniziate millenni fa.
La conclusione di Hughens è questa: l’ultima a ridere sarà la filosofia, perché lo scientismo rivela continue confusioni concettuali che risultano ovvie alla riflessione filosofica; piuttosto che renderla obsoleta, si sta preparando il terreno per un revival sempre più necessario. Arriva poi a dire che, se chiamiamo superstizione l’insistere testardamente nell’affermare che qualcosa abbia poteri che non sono supportati da alcuna evidenza, ecco che questa è la natura dello scientismo. Una natura pericolosa, perché potrebbe minare gravemente la credibilità della scienza stessa, spingendo la gente a dubitarne anche quando discute dei suoi veri campi di competenza. L’augurio dell’autore è che giunga un nuovo illuminismo, capace di rimettere al loro posto certe superstizioni spacciate per scienze empiriche.
Considerato com’è andata la storia, compresa la constatazione che è proprio in un clima post-illuminista che presero vita le suggestioni scientiste, noi ci limitiamo a sperare che le prossime generazioni di scienziati dispongano di una formazione filosofica tale da comprendere che il campo di esperienze delle scienze empiriche ha dei confini, che non possono essere valicati senza iniziare a parlare di filosofia, anche quando non ce se ne rende conto.