Una piuma candida che accarezza il cuore. Con dolcezza solletica la mente, racconta una storia di dolore e sofferenza senza lacerare la sensibilità del lettore, ma solo sfiorandola delicatamente. E delicato è l’aggettivo giusto per definire questo romanzo.
Anni Ottanta. Leo è una bimba che deve fare i conti con due genitori un po’ distratti. Distratti perché impegnati a manifestare contro gli abusi e i soprusi che avvengono nel mondo, contro gli arresti illegali, le violenze, l’apartheid. Ma tutto questo per la piccola Leo è solo la causa delle levatacce domenicali – per partecipare a cortei e mostre o per faticose passeggiate in montagna –, dell’assenza dei genitori, e, soprattutto, degli innumerevoli adesivi attaccati sul suo comodino: non quelli degli eroi dei cartoni animati (che tutti i bambini attaccherebbero volentieri dappertutto), ma stikers contro la violenza e altre cose incomprensibili. Fra tutti spicca un adesivo arancione, sul quale sono disegnati cinque uomini e una donna (la si riconosce per via della gonna), tutti di spalle. Ma di chi si tratti, a Leo non interessa.
Sudafrica: eccole, le persone dell’adesivo: sono “i sei di Sharpeville”, uomini che trascorrono una vita semplice, onesta, e che quel maledetto 3 settembre 1984 si sono ritrovati al corteo contro il console Dlamini. Una manifestazione conclusasi nel sangue: Dlamini viene assassinato e Ja Ja, Oupa, Reid, Theresa, Duma, Fransis sarannno i capri espiatori.
Per anni il papà e la mamma di Leo si battono per la liberazione di questi uomini ingiustamente detenuti, finché il sistema dell’apartheid comincia a vacillare e le sue vittime si salvano (tornano alla vita, senza riuscire a liberarsi del fantasma del carcere). Ma a Leo, ormai diventata donna, non basta
sapere che quella gente ora è libera. Non riesce a considerare quelle vittime “eroi” (come fa, invece, il suo papà), senza aver prima scoperto qualcosa in più della loro vita, delle loro idee. E così vola in Sudafrica e conosce i volti di quelle sei persone ritratte di spalle sull’adesivo, con le quali ha trascorso l’intera infanzia: non “eroi”, ma gente normale, che quel giorno, magari, avrebbe preferito rimanere a casa. Al ritorno, dovrà trovare le parole per confessare al padre che «non esistono gli eroi», ma gente comune, «persone meravigliose e fragili, irascibili e distanti, poi fin troppo vicine, che sanno toccarti il cuore raccontando una storia luminosa».Il romanzo d’esordio di Leonora Sartori è il risultato di un viaggio in Sudafrica del 2004, durante il quale l’autrice vicentina ha raccolto testimonianze e ha incontrato di persona i sei di Sharpeville.
La sua penna è leggera e diretta, e racconta una storia vera dal sapore autobiografico. A dispetto della struttura un po’ “ingarbugliata” del romanzo (brevissimi capitoli, spesso intitolati col nome del protagonista di quelle pagine, si intrecciano con altri capitoli dedicati alla piccola Leo e alla sua famiglia sui generis), il romanzo risulta scorrevole e chiaro, e si lascia leggere con molta facilità anche in un solo giorno. Lo stile morbido di Leonora Sartori induce a sfogliare le pagine per scoprire la storia di Leo e dei sei di Sharpeville, ai quali è difficile non affezionarsi, complice la capacità dell’autrice di tratteggiare con grande sensibilità le loro turbolente esistenze.
Angela Liuzzi
Leonora Sartori, La forma incerta dei sogni, Piemme, 164 pp., 14 euro