Pubblicato da mbaldrati su giugno 8, 2012
di Mauro Baldrati
Se nella sua accezione originaria il “romanzo di formazione” (Bildungsroman, dal tedesco, poiché per convenzione si fa risalire la nascita del genere al Wilhelm Meister di Goethe) tendeva al racconto dei processi di integrazione sociale del protagonista, oggi si può dire che avvenga il contrario, cioè la difficoltà di integrazione in un mondo sempre più negativo, se non una vera e propria disintegrazione sociale. Infatti il concetto di romanzo di formazione si è allargato, e oggi possiamo classificare come tale qualsiasi racconto che tratti una crescita, anagrafica, sociale, politica, intellettuale, con tutte le relative difficoltà, con tutti i rifiuti e le pazzie che un sociale a dismisura d’uomo oppone a una giovane persona.Rifiuti ricambiati peraltro. Infatti nel romanzo Luna di Lenni di Emanuele Berardi (round robin 2011), romano nato nel 1977, emigrato in Belgio dove lavora come biologo, il protagonista, Lenni, percorre le strade accidentate della formazione scontrandosi con le forze contundenti del potere, che contesta, che combatte, con armi spuntate ma anche affilate: studente di psicologia in una Roma di periferia che passa in poche righe dallo strapaese alla metropoli, ragazzo di una “banda” di coetanei che porta avanti la tradizione dei marginali, degli anarchici, partecipa alle occupazioni dell’università, tira i sampietrini, spacca quando c’è da spaccare. Non si pone il problema se i poliziotti siano o no figli del popolo, perché il loro unico fine è rompere la sua testa o arrestarlo. E infatti accade, viene arrestato durante l’ennesima manifestazione, passa una notte in questura tra poliziotti realmente “del popolo”, bonaccioni, paternalisti, che parlano un “argot” quasi incomprensibile, e un viceispettore che, dopo una risposta che non gli garba, gli sferra un violentissimo pugno in faccia, così, tanto per fare. Poi altri poliziotti lo aiutano a rialzarsi, gli offrono il ghiaccio per l’ematoma, e lo sbattono fuori con le relative angosce di un processo che forse si farà, oppure no, chissà come e quando. Il tutto senza un’oncia di retorica, senza una traccia di predica, o dramma, o di ironia, o di lamento.
E’ uno degli aspetti di questo romanzo: l’assenza di retorica, o di ideologia confezionata altrove. Se Lenni sta male, se è triste, scoraggiato, l’autore lo fa sentire dall’interno, come se davvero fosse il personaggio narrante, come se davvero non ponesse il filtro letterario, ma questo filtro fosse già nel suo essere un giovane post-punk degli anni Novanta, sorta di black bloc melodico e disincantato, un po’ malinconico, persino romantico, senza smancerie, né mediazioni dovute a un progetto sovraordinato. In questo senso Luna di Lenni è interessante come esempio di narrativa giovanile del nuovo secolo: se lo scrittore novecentesco elaborava con fatica, con la sofferenza che poteva spingersi fino alla malattia o addirittura la morte, il suo filtro letterario che gli permetteva di ripulire la scrittura dalle scorie, l’autore del romanzo di formazione del XXI secolo sembra tendere più a una full immersion nel suo stesso personaggio, che porta avanti senza filtri, lungo una linea di confine tra realtà e fantasia, senza trasfigurazioni, senza troppe bugie e commedie (perché la totale assenza di menzogna pare ancora impossibile nella letteratura), essendo la sua pulizia delle scorie già avvenuta nel suo avatar preterletterario. Insomma, se lo scrittore novecentesco era un artista della menzogna senza farci sentire che mentiva, cioè mentendo sulla menzogna finiva per arrivare alla verità, lo scrittore di formazione del XXI secolo se mente non è “davvero” cosciente di farlo, perché la sua è una menzogna per così dire incosciente, primitiva, e se arriva sulla pagina non è tanto per l’accanimento sul lavoro letterario ma perché è “pronto”, è più o meno “pulito” come lo è il suo giovane personaggio.
Prendiamo un paio di esempi novecenteschi di letteratura di formazione: On the road di Jack Kerouac: è viaggio duro, sembra di essere a bordo delle auto guidate da un enfatico, psichedelico Dean, sembra scritto di getto, come vuole l’epica, ma è il frutto di un raffinato lavoro letterario, di una accurata revisione per renderlo pubblicabile, forse per renderlo un best seller. O Primavera nera di Henry Miller, con caratteristica di testo a episodi: energia brutale autobiografica di stampo quasi surrealista: quando scrive, in preda a una furia post rimbaldiana: non correggerò mai queste pagine, è già alla terza revisione del romanzo, e non la cancella. Lo scrittore novecentesco “poteva” tutto, sapeva di non avere limiti alle proprie autoassoluzioni, purché raggiungesse l’obiettivo di filtrare le scorie, di puntare alla verità. Lo scrittore di formazione del XXI secolo che emerge da Luna di Lenni semplicemente non si pone più il problema: l’ambiente affollato di reduci delle precedenti generazioni viene fatto rivivere col minimalismo psicologico del suo autore-personaggio, senza preoccuparsi di introdurli, trasfigurarli o renderli affascinanti/sgradevoli. Ci sono e punto. Così come li vede il ragazzo degli anni Novanta/Duemila che si trova a incrociare i loro cammini. Sembra di poter dire: tale il personaggio tale l’autore.
Luna di Lenni non è “soprattutto” un romanzo di formazione politico, ma “anche”. E’ un raccontare intensivo, sentimentale, malinconico, rabbioso, interessante per il lettore più anziano perché “vede” come i ragazzi “vedono” i suoi contemporanei, i fratelli che escono dalle epoche precedenti: residuati punk mezzi rattoppati, danneggiati dagli stravizi e dall’alcol, ex autonomi che predicano con enfasi formule politiche consolidate, reduci già “vecchi” a cinquant’anni (proprio come lo erano nell’antica Roma): sono tutti lì perché non potrebbero essere altrove, se non in un ospedale, o in una capanna tra le montagne, o sui marciapiedi a dormire sui cartoni – difficilmente, se non impossibile, a impersonare il mito sgangherato degli yuppies che hanno fatto carriera nella finanza o nella politica. Non c’è una vera storia, ma un susseguirsi di “un giorno”, “una sera” e così via.
Il giovane scrittore di formazione del XXI secolo ha una responsabilità non trascurabile sulle sue non certo storiche spalle: decidere se continuare sulla strada di accesso diretto alla realtà senza filtri o mediazioni che non siano quelli vitali del personaggio/autore, infischiandosene dello schema, del progetto, della storia, con esiti incerti e poco prevedibili; oppure portare avanti il lavoro certosino sul filtro letterario di stampo novecentesco, diventando persino un po’ furbetto per fare i conti con “l’esordio travolgente” che inseguono gli editori mainstream per vendere le copie del suo libro.