Magazine Opinioni

La geografia e la storia, croce e delizia del Libano

Creato il 16 settembre 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

libano-crisi-proteste-instabilità

di Antonella Roberta La Fortezza

La geografia e la storia sembrano aver assegnato al Libano il suo destino. Costantemente teso fra il mondo occidentale e quello arabo in una posizione di crocevia fin dai tempi dell’Emirato del Monte Libano, il Paese dei Cedri si muove come un funambolo sull’insicura fune che divide la stabilità dal collasso. Incessantemente alla ricerca del suo equilibrio all’interno e all’esterno, il Libano è forse il Paese del Levante che maggiormente risente dell’instabilità caratterizzante la regione. Un perfetto ma alquanto precario gioco di equilibri ha consentito per lungo tempo al Libano di smorzare le tensioni interne dovute alla compresenza di diverse comunità (principalmente maronita, sunnita e sciita); ma muoversi in spazi così ristretti significa essere preda, più di altri, di ogni minima alterazione dello status quo così come esistente. Così, il Libano ha mostrato apertamente e più volte nella sua storia tutte le contraddizioni, interne ed esterne, amplificandole ed esasperandole. Infatti, a soli venticinque anni dalla fine della guerra civile, il vacuum istituzionale che si prolunga ormai da più di un anno, la difficile situazione economica e i nuovi sconvolgimenti nel contesto regionale fanno del Libano, ancora una volta, una facile preda di quel settarismo che già in passato ha portato il Paese dei Cedri al collasso. Proprio le proteste anti-governative che si stanno registrando in questi ultimi giorni, proteste generate dalla crisi dei rifiuti ma che si sono presto trasformate in una contestazione politica contro la piaga della corruzione e il sistema di protezione sociale ormai al collasso, testimoniano la definitiva insostenibilità della situazione libanese nel lungo periodo.

Due variabili: la geografia e la storia

In generale, quando si vuole compiere un’analisi di un Paese bisogna necessariamente partire da due dati fattuali imprescindibili, inevitabilmente intersecati nel definire spesso, salvo colpi di scena e senza eccedere nel fatalismo, il destino di un Paese: la geografia e la storia. Se questo è vero per ogni Paese forse lo è ancora di più per la regione mediorientale e in particolare per il Libano.

La situazione geografica del Libano si palesa ai nostri occhi come abbastanza comprensibile anche ad uno sguardo rapido di una qualsiasi cartina geografica dell’area mediterranea e mediorientale. Non può, infatti, sfuggire la peculiare collocazione del Libano: a nord e a est il vicino siriano con cui ha condiviso le origini del processo di statualità e con cui ha continuato a camminare durante tutto il Ventesimo secolo, a sud ’con Israele, e infine a ovest il Mar Mediterraneo. Due vicini scomodi e talvolta ingombranti, dunque, che hanno segnato nel bene e nel male l’intera storia libanese; un mare, il Mediterraneo, che ha favorito nella zona dell’attuale Libano, e più in generale nella zona siro-libanese, il contatto con i popoli europei. Per capire quanto il legame creato da questo mare, che sembra divenire quasi un lago in una visione periscopica ideale, basterà fare riferimento alla storia millenaria di rapporti commerciali, economici e culturali tra le città di Venezia, Amalfi o Palermo e il porto di Beirut. Quest’ultimo è il più grande porto sul Mediterraneo della costa del Levante in cui per secoli sono state dirette tutte le merci provenienti dalla Siria e dalla Palestina e destinate a continuare il loro viaggio vero l’Europa e l’America. Il triangolo costituito da Beirut, Damasco e Aleppo ha rappresentato per secoli il cuore commerciale dell’Asia Occidentale, «l’emporio dei luoghi santi cristiani e islamici» [1]. Quando Stati-nazione sorsero sulle rovine dell’Impero Ottomano, la Siria perse la sua funzione di centro commerciale per l’intera regione e tuttavia non smise il proprio ruolo di corridoio fra l’Asia e l’Europa, non fosse solo che per la sua posizione geografica. Proprio questa peculiare posizione di ponte e crocevia ha fatto si che la popolazione, in particolare in prossimità della fascia costiera, si componesse delle razze più eterogenee. Un tale mosaico etnico-religioso è dovuto, quindi, in gran parte all’incessante flusso di spostamenti delle popolazioni lungo la fascia del Levante e alle continue emigrazioni. Anche in tempi a noi più recenti il Levante ha indubbiamente mantenuto quel suo carattere di zona di traffico e di passaggio obbligato fra l’Oriente e l’Occidente, fra l’Asia Anteriore e quella Centrale. Un crocevia di culture, scambi commerciali, lingue e religioni, dunque, determinato principalmente dalla posizione geografica.

vilayat-levante
Vilayet nel Levante – Fonte: WikiMedia Commons

La storia del Libano contemporaneo comincia a distinguersi da quella della Siria nel 1888 quando ai due vilayat [2], quello di Damasco e di Aleppo, fu aggiunto quello di Beirut come ’ufficiale riconoscimento dell’importanza, soprattutto a livello commerciale, che la città iniziò a ricoprire nella seconda metà del Diciannovesimo secolo. Quando nel 1914 la Prima Guerra Mondiale vedeva esplodere i suoi primi colpi, i territori che oggi costituiscono lo Stato libanese erano ancora sotto il controllo del cosiddetto «Malato d’Europa» [3], l’Impero Ottomano. La partecipazione dell’Impero alla guerra e la sua sconfitta segnata nel 1920 dal trattato di Sévres e ribadita nel 1923 dal Trattato di Losanna determinarono necessariamente le sorti anche di quei territori per secoli sotto il dominio ottomano. Inizia così, subito dopo la prima guerra mondiale, per i territori che oggi compongono il Libano, la trentennale storia del Mandato francese. Per quel che qui ci interessa, la Siria, comprendente anche le province che costituiscono oggi il Libano, venne affidata come mandato unico di tipo A alla Francia [4]. Ciò che deve mettersi in evidenza fin da subito è l’idea stessa di un Libano come creazione francese. Applicando l’art. 22 del Covenant della Società delle Nazioni [5], il Mandato sulla Siria e sul Libano fu affidato come un tutto unico alla Francia. Soltanto sotto il mandato francese e in particolare con l’azione del generale Henri Gouraud il territorio siriano venne smembrato in cinque Stati autonomi i primi quattro, tra cui il Grande Libano, creati tutti il 1° settembre 1920 mentre l’ultimo, il Jebel Druso, venne creato nel 1921. Insomma la Francia attuava sul territorio del mandato siriano la politica del divide et impera [6], contravvenendo alle finalità e alla logica del Mandato unico così come affidatole dalla Societá delle Nazioni. La separazione stessa del Grande Libano dalla Siria ebbe l’inevitabile effetto, su cui contava la Francia, di contrapporre l’uno agli altri quelli che nella realtà, a partire dal 1920, si concretizzarono come due diversi mandati. La divisione non rispondeva tanto ad una logica geografica, quanto ad una logica etnica: la Siria era formata in prevalenza da elementi arabi e in questo senso mal si adattava al mandato francese; viceversa, l’ex provincia del Monte Libano, rifugio di numerose minoranze perseguitate tra il 1568 e il 1635, era a maggioranza cristiana. L’elemento cristiano, come è logico intuire, non era affatto avverso all’influenza direttamente esercitata da Parigi, il suo difensore principale durante gli anni della dominazione ottomana [7], quantunque spesso ne disapprovasse l’attività politica ed amministrativa.  

libano-siria-francia-mandati-coloniali
Mandati coloniali francesi in Medio Oriente – Fonte: GeoCurrents Map

Il confessionalismo tra passato e presente

L’analisi contestuale della geografia e della storia del Libano consentono di stabilire la prima e fondamentale caratteristica su cui il Paese dei Cedri poggia le proprie radici, partendo dalla quale potranno poi analizzarsi molte delle dinamiche attuali: il multi-confessionalismo. Proprio questa principale caratteristica viene ripresa e interpretata in termini giuridici dalla Costituzione di tipo liberale del 1926. Quest’ultima, chiaramente ispirata alla Costituzione francese del 1875 e a quella belga del 1831, vide nell’uomo d’affari maronita, Michel Chiha, il suo principale ideologo. Il pensiero politico di Chiha si fondava sull’idea secondo la quale il multi-confessionalismo e la grande varietà di gruppi differenti costruita nei secoli grazie alla posizione geografica dei territori libanesi,  fosse la più grande ricchezza del territorio e del futuro Stato del Libano. Per questo la costruzione dello Stato-organizzazione non avrebbe dovuto ridurre in alcun modo la ricchezza umana e culturale del paese; al contrario, compito principale della nuova entità libanese sarebbe dovuto essere quello di preservare e avere cura di questa varietà e ricchezza lasciando che le singole comunità si organizzassero autonomamente. Da questo momento in poi lo Stato del Grande Libano divenne un’entità multi-comunitaria e la Costituzione la legittima garanzia di un doppio livello di organizzazione della società: da un lato le comunità e dall’altro lo Stato centrale. La Costituzione del 1926 venne integrata nel 1943, anno in cui il Libano cancellò ogni riferimento al Mandato francese dalla propria costituzione, da un accordo non scritto passato alla storia con il nome di Patto Nazionale. Quest’ultimo va letto proprio come la naturale continuazione, questa volta da parte di un Libano ormai quasi totalmente indipendente, di quella strada intrapresa con la Costituzione del 1926. Il Patto, che venne salutato come la manifestazione tangibile dell’esistenza dello Stato libanese stesso, fu probabilmente, in una visione storica complessiva e contrariamente alle aspettative di chi quel Patto aveva contribuito a creare, uno dei principali colpevoli della definitiva comunitarizzazione dello Stato. La regola aurea sancita da quel Patto ancora oggi vigente stabilisce una chiara ripartizione delle cariche istituzionali tra le diverse comunità esistenti. Andando, come detto, nella medesima direzione della Costituzione del 1926, il Patto Nazionale delinea un sistema di potere che si basa sulla rappresentatività delle comunità: la più alta carica della Repubblica, la sua Presidenza, viene quindi assegnata ad un cristiano-maronita, all’epoca indubbiamente la comunità più numerosa, mentre ai musulmani sunniti spetta la Presidenza del Consiglio. Per quanto riguarda la Presidenza della Camera, che tocca di regola ad uno sciita, in realtà non può farsi riferimento al Patto Nazionale ma piuttosto ad una consuetudine che si è sviluppata negli anni successivi. L’accordo raggiunto nel 1943 non è mai stato modificato né messo in discussione, neanche dagli accordi di Ta’if che nel 1990 misero fine alla guerra civile. L’importanza del Patto va oltre i confini istituzionali libanesi per proporsi come il simbolo di un compromesso tra due diverse visioni della statualità: da un lato, i cristiani rinunciavano alla protezione coloniale francese, dall’altro i musulmani abbandonavano ogni aspirazione all’unificazione del Libano con la Siria e con qualunque Stato unitario arabo che mirasse a unificare le ex province arabe dell’Impero Ottomano. Lo Stato libanese indipendente nasceva, così, nel totale rispetto di una storia millenaria di ricchezza culturale e umana con la naturale vocazione di chi semplicemente per la propria posizione geografia ha fatto della diversità una ricchezza, proponendosi come terra di dialogo tra cristiani e musulmani, come ponte fra l’Occidente e l’Oriente.

libano-confessioni
Fonte: Atlante Geopolitico Treccani 2015

La struttura così disegnata dello Stato indipendente libanese può qualificarsi come una sorta di modello di convivenza e di multi-confessionalismo che ha consentito di far coesistere in un Paese arabo ben 18 confessioni differenti [8] senza stringerlo per questo  nella morsa dell’immobilismo. L’equilibrio si regge sulla condizione per cui da un lato, nello Stato-organizzazione tutte le comunità hanno eguali diritti, dall’altro ciascuna comunità mantiene la propria stretta indipendenza e libertà nei confronti delle altre. Il perfetto equilibrio tra le varie comunità deve considerarsi un elemento sacro per il Paese dei Cedri poiché proprio la divisione, l’autonomia e la proporzionalità consentono la convivenza di gruppi così eterogenei. Questa stessa “sacralità” dello Stato confessionale sembra essere uno dei motivi per cui, ad esempio, in Libano non si tiene un censimento dal 1932. In realtà, la lettura che può farsi di questo specifico dato è ambivalente: secondo alcuni, vi sono delle particolari pressioni affinché non si effettui un nuovo censimento in quanto è evidente che il peso numerico della comunità maronita sia diminuito rispetto al passato; secondo altri la sacralità del sistema costruito nel 1943 e che rende il Libano un unicuum nel contesto regionale è tale da non ammettere alcuna revisione.

Ad ogni buon conto, partendo da questo scenario, in tempi normali, questa “atavica” appartenenza riesce talvolta persino ad essere messa da parte e si arriva a percepire il proprio statuto civile nella cornice uniformante dello Stato libanese. Nei periodi di tranquillità cioè l’identità comunitaria, quanto meno sul piano culturale ed ideologico, riesce a relativizzarsi [9]; gli appartenenti alle diverse comunità percepiscono lo Stato come concetto superiore anche alle singole appartenenze, al punto che l’essere libanese diventa più importante dell’appartenenza ad una determinata comunità confessionale.

Una risorsa dunque, un modello da esportare e da insegnare; ma questa risorsa nasconde alcune aree grigie che si manifestano in particolare quando qualcosa rompe il generale contesto di tranquillità ed equilibrio. La verità è che il modello di Stato confessionale libanese – una sorta di terza via tra il modello laico occidentale e quello teocratico islamico – ha nel confessionalismo il suo punto di forza e contemporaneamente la sua debolezza. Questo perfetto equilibrio costruito a fatica durante gli anni e che già in passato ha dimostrato la propria fragilità, obbliga il Libano a vivere in un continua situazione di tensione in cui la minima alterazione dello status quo potrebbe cambiare inesorabilmente le sorti del Paese. L’equilibrio raggiunto non è un equilibrio stabile e duraturo ma costantemente precario e che facilmente può essere messo in discussione da improvvisi e repentini cambiamenti. Il Paese dei Cedri assorbe questi cambiamenti e nell’assorbirli mette in moto quel terribile meccanismo, il quale dimora in quelle aree grigie del modello libanese, che rompendo i delicati equilibri rischia di portare al crollo definitivo.

Ciò che rende la situazione ulteriormente precaria è che il Libano corre costantemente il rischio di vedere alterati i propri equilibri non tanto, o perlomeno non solo, a seguito di piccoli cambiamenti sul fronte interno quanto, ancora di più, a seguito di cambiamenti nel contesto regionale. Il Libano in questo senso sembra essere una sorta di “spugna”, uno stato cuscinetto, che da un lato assorbe ogni minimo cambiamento dello status quo, ogni variazione e soprattutto ogni accadimento che si registra nel contesto regionale e dall’altro viene plasmato talvolta a piacimento dai diversi protagonisti della vita della regione. Proprio a tal riguardo bisogna aggiungere che la posizione geografica del Libano e gli interessi che sono in ballo nella regione fanno del Paese dei Cedri una preda ambita da molti attori regionali. In questo senso, spesso, anche le differenze trans-comunitarie sono state usate da player esterni per premere ciascuno verso i propri interessi più rilevanti. La crisi istituzionale che il Libano sta attraverso da ormai più di un anno può essere letta anche in questi termini. Secondo molti osservatori l’impossibilità di convergere su un nome per la Presidenza della Repubblica non è una questione esclusivamente interna dovuta ai contrasti tra le varie fazioni che siedono in Parlamento. L’immobilismo istituzionale non sarebbe dovuto tanto all’ostruzionismo che i partiti stanno conducendo nelle aule del Parlamento quanto al gelo che regna all’esterno tra Iran e Arabia Saudita. I due grandi protagonisti della regione sono riusciti negli anni ad infilarsi nelle crepe del precario equilibrio inter-settario libanese sfruttando i vuoti che per forza di cose esistono in meccanismi così delicati. Del resto, Teheran e Riyadh hanno spesso sfruttato proprio l’elemento religioso come strumento della loro protezione esterna, finanziando di volta in volta i partiti “amici” presenti sullo scenario politico libanese. Il modello libanese è facile preda di chi, seguendo i propri interessi, preferisce sostenere concetti antitetici rispetto all’eterogeneità e al multi-confessionalismo.

Se la rottura dello status quo è uno dei motivi principali dell’alterazione dei delicati equilibri interni libanesi, faticosamente costruiti e mantenuti, non possono non temersi gli effetti che l’attuale crisi siriana potrebbe avere sul Paese dei Cedri. Tali effetti non devono leggersi tanto in termini di pericolo derivante da possibili infiltrazioni jihadiste, quanto piuttosto, ciò che rileva, è l’effetto che tale crisi potrebbe avere sugli equilibri interni. Per quanto riguarda il problema dell’infiltrazione jihadista sembra che la situazione in Libano sia ancora sotto controllo nonostante si siano registrati alcuni episodi in tal senso [10]. Prima di tutto i confini sono controllati dalle Forze armate libanesi e spesso dalle forze militari di Hezbollah; ma soprattutto lo Stato libanese non può in alcun modo essere paragonato alla Siria o all’Iraq che a tutti gli effetti rientrano ormai nella logica dei Failed States. Il Libano dispone ancora di un governo funzionante e questo sembra rendere l’avanzata dello Stato Islamico molto più difficile in quanto la penetrazione terroristica si basa anche sulla ricostruzione di una rete di fiducia e di welfare state che lo Stato fallito non è più in grado di garantire in quanto in totale disfacimento. Effetti maggiormente catastrofici si temono, invece, in riferimento ai riflessi che la crisi siriana potrebbe avere nel delicato oscillare del Libano su quella fune che divide l’ordine dal caos interno.  Proprio la crisi siriana rischia di evidenziare ancora una volta quella fragilità intrinseca nel confessionalismo e di mettere in rilievo le aree grigie della costruzione istituzionale libanese.

La crisi siriana e i suoi effetti sul Paese dei Cedri

Del resto la crisi siriana ha già fatto la sua prima vittima in territorio libanese: la carica della Presidenza della Repubblica. Al vacuum istituzionale che si è aperto il 25 maggio del 2014, quando è venuto a scadenza il mandato dell’ex Presidente Michel Suleiman, sembra non riuscirsi a trovare una soluzione ed è lecito supporre che non la si potrà trovare se non in tempi molto dilatati, tempi che probabilmente dipenderanno dallo stesso conflitto siriano. Da quel 25 maggio il Parlamento ha votato decine di volte senza mai riuscire ad arrivare al quorum necessario per la votazione a causa dell’ostruzionismo portato avanti da alcuni settori del Parlamento. L’accordo sembra sempre più impossibile a causa, da un lato, della tensione che si registra tra le due coalizioni esistenti in Libano, quella dell’8 marzo e quella del 14 marzo [11] e dall’altro, per la divisione che si registra all’interno della comunità maronita stessa [12], alla quale tra l’altro spetta proprio il compito di coprire la carica vacante. I tre candidati alla Presidenza della Repubblica hanno ciascuno alle spalle un preciso blocco politico: Samir Geagea, capo del partito politico Le Forze Libanesi è sostenuto dalla coalizione del 14 marzo, sunnita e filo occidentale; il generale Michel Aoun, leader del partito Corrente Patriottica Libera è, viceversa, sostenuto dalla coalizione dell’8 marzo, guidata da Hezbollah; infine, vi è un terzo candidato, Henri Helou, sostenuto dalla costola socialista progressista del partito di Geagea. L’impossibilità di far convergere le preferenze su un nome è dovuta principalmente alle antitetiche posizioni dei due blocchi in riferimento all’attuale scenario siriano e in particolare alla frattura che si è creata tra i sostenitori e i detrattori del regime di Assad. I parlamentari di Hezbollah continuano a difendere la decisione del loro partito di combattere in Siria al fianco di Assad scatenando così le critiche del gruppo del 14 marzo, la coalizione guidata dal sunnita Saad Hariri da sempre avversaria del partito sciita e profondamente contraria al regime siriano. Da più di un anno, dunque, il Libano è senza un Presidente della Repubblica; a questo bisogna aggiungere che l’ultima elezione parlamentare risale al 2009. A causa della mancanza di un accordo sul nome del Presidente, infatti, le elezioni parlamentari che dovrebbero svolgersi ogni 4 anni sono state rinviate per la prima volta di 18 mesi nel giugno 2013 per poi, alla scadenza di questo primo termine, nel novembre del 2014, essere definitivamente rinviate di un’intera legislatura. Non è un caso dunque che si parli ormai di una democrazia sospesa in riferimento al Libano: una democrazia immobile e chiusa nelle morse dell’ostruzionismo.

L’ingombrante vuoto di potere sulla sedia della Presidenza della Repubblica e la conseguente paralisi delle normali attività dello Stato si stanno ripercuotendo in modo negativo anche sulla sfera socio-economica. I dati relativi alla crescita economica sono assolutamente deludenti rispetto alle previsioni e rispetto ai tassi che avevano caratterizzato il Libano fino al 2010; la disoccupazione è in salita e sfiora ormai il 20%, il debito pubblico è in considerevole aumento e le principali variabili macroeconomiche indicano che il Paese è in recessione [13]. Per di più molti prestiti e fondi internazionali agevolati sono bloccati a causa dell’instabilità politica del Paese che si traduce spesso nell’impossibilità di trovare un interlocutore accreditato [14]. In riferimento alla difficile situazione economica nasce quasi spontaneamente il paragone con la crisi economica che il Libano ha attraversato appena prima, a partire dai primi anni Settanta, di un altro momento fondamentale: l’inizio della guerra civile. Alla prosperità senza precedenti del ventennio 1953-1973 è succeduta una fase di stagnazione economica e inflazione in cui la maggioranza della popolazione ha visto sfumare il livello di benessere raggiunto nei decenni precedenti. Questo rapido riferimento al recente passato libanese consente di evidenziare un’altra particolare costante storica. L’oscillazione di quella che è stata definita la relativizzazione dell’identità comunitaria segue il ritmo delle congiunture economiche: i periodi di espansione economica, cioè, corrispondono generalmente all’allentamento della presa comunitaria; viceversa quelli di recessione permettono il ritorno in forze delle tradizionali strutture di potere [15]. Il timore che deriva quindi dall’attuale congiuntura economica negativa è che in una situazione di aumento della povertà e del gap tra le classi ricche e povere possano emergere ancora una volta le aree grigie del confessionalismo libanese. Lo stato di necessità e di bisogno in cui molti libanesi sono costretti a vivere potrebbe dare nuovo spazio all’identità comunitaria a discapito del sentimento nazionale, rianimando quelle stesse tensioni che già una volta hanno condotto il Paese dei Cedri sul precario confine tra stabilità e caos. 

Ma la crisi siriana rischia di alterare gli equilibri libanesi anche tramite il lento lavorio di un altro meccanismo: il problema dei profughi e il conseguente cambiamento del peso delle varie comunità. La maggior parte dei profughi siriani che giungono in territorio libanese sono soprattutto sunniti: questo non fa che alterare le proporzioni interne tra le varie comunità mutando ancora una volta, il volto del Paese, come già l’emigrazione, i cambiamenti nei tassi di natalità soprattutto nella comunità sciita e la questione dei profughi palestinesi avevano fatto in passato. Anche in questo caso il paragone con quanto accaduto negli anni precedenti allo scoppio della guerra civile sembra quasi doveroso. Negli anni Settanta non si trattava certo di siriani ma di palestinesi, che a partire dal 1948 avevano trovato una nuova patria nel vicino Libano andando, in questo modo, ad alterare poco alla volta i delicati equilibri tra le comunità. Fu questo uno dei motivi alla base dello scoppio della guerra civile nel 1975 ed è questa anche una delle ragioni per cui il governo libanese rifiuta oggi la costruzione di campi profughi per i siriani nei confini del Libano. La costruzione di campi profughi finirebbe, agli occhi dei libanesi, da un lato, per spingere i siriani a stabilizzarsi definitivamente in Libano e dall’altro si teme che i campi possano diventare, come negli anni Settanta, luoghi di addestramento sotto il controllo di gruppi estremisti. Tuttavia, ad una attenta analisi, non possono non scorgersi le evidenti differenze tra la situazione attuale e quella degli anni Settanta; in particolare bisogna sottolineare in primo luogo che i rifugiati palestinesi si sono stabilizzati definitivamente in Libano principalmente perché ancora oggi non hanno una terra in cui tornare; il discorso è invece diverso per i siriani i quali hanno uno Stato-nazione cui fare riferimento sebbene al momento distrutto dalla guerra e completamente da ricostruire. In secondo luogo bisogna evidenziare  che mentre l’emigrazione palestinese vedeva una forte carica ideologica, quella siriana sembra, perlomeno per il momento, scevra da particolari ideologie o contenuti politici: semplicemente i siriani scappano dalla guerra per poter salvare se stessi e la propria famiglia. Infine, al contrario di ciò che avvenne negli anni Settanta con la leadership palestinese, quella siriana non risiede in Libano e, appunto, non si tratta di un movimento di popolazione guidato da forte carica ideologica.  Nonostante tutte queste differenze non può negarsi come sia ancora vivo nella memoria del popolo libanese e della sua classe dirigente il ricordo delle conseguenze devastanti a cui quel cambiamento di equilibri portò nel 1975. Così, l’emergenza umanitaria creata dai profughi e sottovalutata fino al 2013, sembra oggi riportare alla mente i ricordi di una generazione che ha vissuto la guerra civile sulla propria pelle e che non intende ricreare i medesimi meccanismi degli anni Settanta. Proprio per via di questa strenua opposizione alla costruzione di campi in territorio libanese, i siriani giunti in Libano a partire dal 2011 hanno trovato rifugio presso conoscenti, amici, parenti ma in ogni caso il sistema che si è messo in moto si è fondato sulla buona volontà dei privati. Tuttavia oggi i numeri non sono più sostenibili: il Libano è un Paese di poco più di 10.000 km² con una popolazione di poco superiore ai 4 milioni che si trova a dover affrontare l’arrivo e la permanenza sul proprio territorio di più di un milione di profughi siriani [16]. Per di più ora i siriani sono dispersi sul territorio libanese – anche se la gran parte di loro è concentrata tra Baalbek, Arsal e la Valle di Bekaa, al confine con la Siria – e ciò comporta da un lato l’impossibilità di quantificare esattamente il problema e dall’altro considerevoli problemi nell’assistenza anche da parte delle organizzazioni internazionali. L’unica proposta che viene fatta dal governo libanese è quella di allestire campi profughi a ridosso del confine e all’interno della Siria. Tuttavia, tale opzione non sembrerebbe trovare l’appoggio della comunità internazionale per due ordini di motivi: prima di tutto in questo modo le varie organizzazioni internazionali avrebbero possibilità di movimento e quindi efficacia fortemente ristretta, non potendosi garantire la sicurezza degli operatori internazionali né nelle zone di confine né tanto meno in territorio siriano; inoltre, dal punto di vista giuridico, qualora i campi fossero situati in territorio siriano, non si potrebbe più parlare di rifugiati ma di sfollati, discendendone dunque un diverso regime giuridico di protezione [17].

libano-rifugiati-crisi-siriana
Rifugiati siriani in Libano – Fonte: UNHCR

A questi fattori di tensione deve aggiungersi un ulteriore e forse più preoccupante tassello per completare il quadro relativo alla questione dei rifugiati. L’iniziale politica pubblica e privata della “porta aperta” sta pian piano lasciando il posto dal punto di vista governativo ad una maggiore attenzione al controllo degli ingressi (per quanto ciò sia difficile considerando la porosità e l’estensione dei confini con il vicino siriano) e da quello privato ad una minore disponibilità ad accogliere i rifugiati siriani visti oramai come un peso, soprattutto economico, per il già compromesso sistema libanese. L’iniziale accoglienza sembra dunque lasciare posto sempre più a tensioni e scontenti soprattutto in quella fascia più povera della popolazione libanese che pretende la stessa tutela che si sta cercando di garantire ai siriani tramite le attività delle agenzie delle Nazioni Unite. Il rischio insito in questo pericoloso meccanismo è che si creino tensioni tra i siriani e gli strati più poveri della popolazione libanese e che questi possano poi essere letti in termini confessionali mettendo in moto il pericoloso meccanismo di cui più volte si è discusso. L’emergenza umanitaria, pertanto, da un lato sta alterando ancora una volta i precari equilibri demografici su cui si regge il Paese e dall’altro sta creando tensioni crescenti tra i libanesi, o perlomeno tra le classi più povere dei libanesi, e i siriani.

Concludendo, la sensazione è che, nonostante tutto, il sistema libanese, almeno per il momento, sia ancora in grado di reggere. Forse soltanto per il ricordo ancora vivo di una guerra civile così lacerante come quella che si è avuta tra il 1975 e il 1990 o forse perché il confessionalismo è davvero un modello vincente, eppure inaspettatamente il Libano non è ancora annoverabile tra le vittime del caos siriano. Ciò che tuttavia non può ignorarsi è il fattore tempo: ciò che oggi è vero per il Libano potrebbe non esserlo più domani. I delicati meccanismi che permettono al Libano di presentarsi nel contesto mediorientale come un modello sono gli stessi meccanismi che potrebbero portarlo al collasso e che vedono nella tensione che si registra al confine con la Siria, nell’emergenza umanitaria, nel vacuum istituzionale le possibili micce di questa instabile polveriera libanese. La posta in gioco, non soltanto per il Libano ma per tutta l’area mediorientale, è la sopravvivenza del mosaico culturale libanese, tortuoso e perennemente instabile ma capace di far convivere identità diverse in una regione così delicata come quella mediorientale. Soprattutto la crisi siriana e l’emergere dello Stato Islamico hanno dimostrato più che mai l’importanza cruciale di questo modello di convivenza unico per il Medio Oriente. 

* Antonella Roberta La Fortezza è OPI Trainee

[1] A. Ausiello, La Francia e l’indipendenza della Siria e del Libano, Stabilimento Tipografico Luigi Proja, Roma, 1938.

[2] La parola araba deriva dalla radice w-l-y che significa “amministrare”. Con il termine vilayat si intendono, infatti, i diversi livelli di divisione amministrativa.

[3] L’espressione “Malato d’Europa” sembra essere stata usata per la prima volta nel 1853 dallo zar Nicola I in una conversazione con l’ambasciatore inglese.

[4] I mandati all’interno del quadro normativo della Società delle Nazioni vennero differenziati in tre diverse tipologie: mandati A, B e C. Sostanzialmente si trattava di una classificazione che dipendeva dal grado di sviluppo politico, economico, sociale e culturale raggiunto dal territorio sotto mandato. In particolare rientravano nei mandati di tipo A quei territori che avevano raggiunto uno stato di sviluppo tale da poter riconoscere loro una cospicua autonomia in vista della totale indipendenza, fine ultimo dell’istituto giuridico del mandato.

[5] Art. 22 del Covenant: «1) I principi seguenti si applicano alle colonie e territori che, in seguito alla guerra, hanno cessato di essere sotto la sovranità degli Stati che li governavano precedentemente e che sono abitati da popoli non ancora capaci di reggersi da sé nelle condizioni particolarmente difficili del mondo moderno. Il benessere e lo sviluppo di questi popoli formano una missione sacra di civiltà, e conviene incorporare nel presente Patto delle garanzie per il compimento di tale missione. 2) Il miglior metodo per realizzare praticamente questo principio è di affidare la tutela di questi popoli alle nazioni progredite che, in ragione delle loro risorse, della loro esperienza o della loro posizione geografica, sono meglio in grado di assumere questa responsabilità e che consentono ad accettarla: esse eserciterebbero questa tutela in qualità di Mandatarie e in nome della Società. 3) Il carattere del mandato deve differire secondo il grado di sviluppo, la situazione geografica del territorio, le sue condizioni economiche e tutte le altre circostanze analoghe. 4) Certe comunità, già appartenenti all’Impero ottomano, hanno raggiunto un grado di sviluppo tale che la loro esistenza come nazioni indipendenti può essere riconosciuta provvisoriamente, a condizione che i consigli e l’aiuto di un Mandatario guidino la loro amministrazione fino al momento in cui saranno capaci di reggersi da soli. I voti di queste comunità devono esser presi innanzitutto in considerazione per la scelta del Mandatario. 5) Il grado di sviluppo in cui si trovano altri popoli, specialmente quelli dell’Africa Centrale, esige che il Mandatario vi assuma l’amministrazione del territorio a tali condizioni che, con la proibizione di abusi quali la tratta degli schiavi, il traffico delle armi e quello dell’alcole, garantiranno la libertà di coscienza e di religione, senza altre limitazioni all’infuori di quelle che può imporre il mantenimento dell’ordine pubblico e dei buoni costumi, e la proibizione di stabilire fortificazioni o basi militari o navali e di dare agli indigeni una istruzione militare, se non per la polizia o la difesa del territorio, e che assicureranno parimenti agli altri Membri della Società condizioni di uguaglianza per gli scambi e il commercio. 6) Vi sono infine territori, quali il Sud-Ovest africano e certe isole del Pacifico australe, che, a causa della debole densità della loro popolazione, della loro esigua superficie, della loro lontananza dai centri di civiltà, della loro contiguità geografica al territorio del Mandatario, o di altre circostanze, non potrebbero esser meglio amministrate che sotto le leggi del Mandatario, come parte integrante del suo territorio, con la riserva delle garanzie previste più sopra nell’interesse della popolazione indigena. 7) In ogni caso, il Mandatario deve inviare al Consiglio un rapporto annuale, concernente i territori che gli sono affidati. 8) Il grado di autorità, di ingerenza e di amministrazione che dovrà essere esercitata dal mandatario sarà in ciascun caso esplicitamente determinato dal Consiglio, quando non sia stato preventivamente convenuto dai membri della Società. 9) Una commissione permanente sarà costituita per ricevere ed esaminare le relazioni annuali dei mandatari e dar parere al Consiglio in ogni materia relativa all’adempimento dei mandati».

[6] La locuzione latina divide et impera, letteralmente “dividi e comanda” definisce una strategia di mantenimento del potere su un territorio o su una popolazione tramite la creazione di divisioni e di attriti tra le varie entità così create. La frammentazione diviene dunque il mezzo tramite il quale esercitare il controllo.

[7] A tal proposito si ricorda la spedizione francese del 1860 in Siria proprio a tutela dei cristiani dopo i famosi eccidi di Damasco del 9, 10, 11 e 12 luglio.

[8] Se 18 sono le confessioni ufficialmente riconosciute, le comunità dotate realmente di peso politico sono sette: cristiano-maroniti, sunniti, sciiti, greco-ortodossi, greco-cattolici, drusi e armeni.

[9] Si veda in tal senso G.  Corm, Il Libano contemporaneo. Storia e società, Jaca Book, Milano, 2006.

[10] Soprattutto si registra una tensione considerevole a Nord, nell’area di Tripoli. Così come è emerso da alcune recenti indiscrezioni sembrerebbe esserci la volontà da parte dello Stato Islamico di procurarsi uno sbocco sul Mediterraneo passando per la costruzione di un Emirato nella città di Tripoli.

[11] Le due principali coalizioni prendono il nome da due manifestazioni fondamentali per la storia del Libano post guerra civile. L’evento scatenante fu l’omicidio dell’allora Premier Rafiq Hariri nel febbraio del 2005 cui seguirono due grandi manifestazioni appunto l’8 marzo e il 14 marzo. Quest’ultima venne organizzata dal figlio del premier ucciso, Saad Hariri, e diede origine alla Rivoluzione dei Cedri a seguito della quale il Libano si liberò della presenza militare siriana iniziata durante la guerra civile.

[12] Attualmente la comunità maronita vede la propria forza politica scissa in ben quattro diversi partiti: Kataeb (o Falangi Libanesi), Forze Libanesi, Movimento Patriottico Libero e Marada.

[13] Dati economici relativi al Libano sono disponibili sul sito della World Bank, http://www.worldbank.org/, su quello del Ministero delle Finanze libanese http://www.finance.gov.lb/en-US/finance/Pages/default.aspx e sul sito della Banca del Libano http://www.bdl.gov.lb/statistics-and-research.html.

[14] Questo è quanto emerge da un’intervista pubblicata su l’Avvenire.it all’ex Presidente Amine Gemayel. Si veda, C. Eid, Libano in stallo in un’area in fiamme, in “Avvenire.it”, 26 maggio 2015.

[15] Si veda in tal senso Georges Corm, op. cit.

[16] Dati, continuamente aggiornati, in merito ai rifugiati siriani su territorio libanese possono trovarsi su sito dell’UNHCR, http://data.unhcr.org/syrianrefugees/country.php?id=122. Tuttavia questi dati non sono che una stima approssimativa in quanto non tutti i rifugiati siriani sono registrati presso i siti dell’UNHCR.

[17] Bisogna precisare a tal riguardo che il Libano non è tra i Paesi firmatari della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. I siriani, infatti, non arrivano in Libano come rifugiati ma come clandestini o turisti e ogni 6 mesi devono pagare per rendere legale la permanenza in territorio siriano.

Photo credits: AP/Bilal Hussein

Potrebbero interessarti anche:

  • turchia-isis-siria-safe-zone

    Le conseguenze di una “safe zone” nel nord della Siria
  • Mohamed Azakir_Reuters

    Il nuovo governo del Libano tra aspettative e debolezze
  • refugees

    L’emergenza rifugiati tra le nuove sfide della comunità internazionale
Share on Tumblr

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog