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La giornata dei souvenir

Creato il 27 gennaio 2015 da Albertocapece

La giornata dei souvenirAnna Lombroso per il Simplicissimus

Oggi mi ero ripromessa di prendermi una salutare vacanza dal web, di non farmi tentare da una visita ai social network, in modo da risparmiarmi il rituale quanto perentorio invito rivolto agli italiani di origine ebraica, ancorché atei, agnostici, laici e perfino bestemmiatori,  a differenziarsi fino all’abiura dalle politiche di uno stato straniero e dalle sue colpe, come se il sionismo – e l’adesione morale cieca e acritica ad Israele – fosse l’unica espressione possibile e moderna dell’ebraismo, del riconoscimento in una cultura, fatta di tradizioni,  abitudini,  ricette, canzoni, libri, poesie, musica, barzellette.

Invito particolarmente pressante proprio oggi perché la giornata della memoria pare fatta apposta per suscitare sdegno a orologeria e ad intermittenza in coscienze pigre, dedite all’oblio, inclini a quel “chiamarsi fuori”, a quella pretesa di innocenza favorita da una certa predisposizione all’ipocrisia di comodo, che dovrebbe esimere automaticamente dal prendere le distanze  dalle colpe e dai crimini commessi da noi.

Invito che pari pari viene rivolto a mansueti nativi di religione musulmana, oggi che l’antislamismo non prende il posto, e ci mancherebbe, ma si associa saldamente all’antisemitismo in un ecumenico  razzismo e in una generalizzata xenofobia contro chi è “differente” o pratica il misfatto di non volersi integrare accettando interamente usi, consuetudini, cucina, credo, abiti, idee e valori del pensiero dominante e asse portante della guerra di civiltà, come la disegna Michel Houellebecq, con un “occidente” costretto a scegliere tra Le Pen o l’islamizzazione.

Mi ero prefissata di non farmi affliggere dall’occasione offerta ai più cretini per sciorinare con l’occasione le loro moderne interpretazioni dei Protocolli di Sion, in modo da  addossare ai banchieri ebrei col naso adunco, avari e speculatori per codice genetico,  le responsabilità della crisi, ricordando magari che erano rimasti a casa l’11 settembre, magari per via di quella ossessione  paranoica per i “complotti”,  dall’abate Barruel ai  Savi Anziani di Sion, ai romanzi di Dan Brown, che esime dallo studiare le origine di quello che ci colpisce e dunque dall’agire.

Mi ero proposta di non farmi umiliare dalle forme più innovative di negazionismo, quelle facilitate da una lettura “politica della storia” che incoraggia infami pacificazioni, aberranti indulgenze e perverse assoluzioni che piacciono ai fan delle larghe intese,  quella che si dedica alla contabilità dei morti, alla gerarchia delle responsabilità, quella cui piace pensare che siamo “brava gente” e che usa l’appropriata celebrazione per dimenticare il manifesto della razza, le persecuzioni, l’apartheid, le leggi razziste riproposte con un certo successo nel corso dell’ultimo ventennio, le delazioni, anche quelle sdoganate contro i dipendenti pubblici all’attuale governo, le stragi, le repressioni e le discriminazioni nostrane che oggi siamo pronti a ripetere sul suolo natio e fuori.

Mi ero determinata a non cadere nella trappola di rispondere a vecchi e nuovi revisionismi, che non offendono solo le vittime della shoah, ma tutti gli “oggetti” delle soluzioni finali, perché apre la porta alla discolpa, al ridimensionamento, ai distinguo delle responsabilità degli assassini istituzionali di intere popolazioni, ai macellai coloniali –  alcuni dei quali di puro sangue italico –  di etnie, come ai persecutori di oppositori politici e ai repressori nel sangue di “diversi”, rei di inclinazioni, aspirazioni e costumi non ortodossi e non conformisti. E che sono già pronti a mettersi al servizio di più moderni imperialismi, di sempreverdi sfruttamenti e campagne cruente ai danni di legioni e probabili popolazioni di inferiori  resi tali dalla condizione di  vittime senza speranza di ricatti e sopraffazioni,  candidati schiavi, che se allora il lavoro rendeva liberi, figuriamoci adesso che il lavoro non c’è.

Perché si sa che il negazionismo, esplicito o pudicamente  implicito, della tragedia sofferta dagli amerindi,   dagli afroamericani, dai rom, dai sinti, dagli armeni  è un essenziale elemento costitutivo del mito  occidentale, delle patrie delle  democrazie, che può autoalimentarsi  solo a condizione di considerare irrilevante la sorte riservata alla massa di coloro che per secoli sono stati esclusi, oppressi o annientati dai signori del profitto, dai loro generali e dai loro kapò e soldatini colpevoli di banale e ottusa ubbidienza.

Si, mi ero ripromessa di non esternare una volta di più il mio fastidio per le celebrazioni ufficiali. E non solo perché il “commemorazionismo” diventa retorico e stucchevole fino a generare stanchezza e rigetto. E non solo perché riduce a liturgia la consapevolezza e ad obbligo estemporaneo e occasionale  il ricordo. E non solo perché non  liquida la possibilità che l’orrore si riproponga, visto che malgrado le giornate della memoria, delle donne, dei migranti si ripresenta con orrenda puntualità. E non solo perché ricordare non basta e non assolve. E non solo perché ridurre a rievocazione il male  potrebbe far pensare che  la malvagità sia prerogativa di alcune psicologie particolari e frutto di tempi e condizioni esterne da noi,  prodotto  di predisposizioni naturali, del carattere “perverso” di certi individui,  avvalorando l’idea di una “autoselezione dei malfattori” e che per difendercene basti individuare i “mostri”, giustiziarli e seppellirli fuori di noi.

 

Ma perché   tutto  può succedere di nuovo solo perché è già successo. Perché del male dobbiamo  avere paura ogni giorno, che ogni giorno occorre far sapere agli uomini che non deve mai cessare l’allarme. Perché  non sono l’irrazionalità, i profondi istinti ferini sempre in agguato, le tenebre della follia umana, a rendere  l’Olocausto   l’abisso dell’umanità, e insieme l’avvertenza che l’abisso si può replicare, proprio nella nostra contemporaneità nella quale per modernità  si intende una razionalità al servizio dell’omologazione, della tecnica al servizio del profitto, dell’organizzazione funzionale dello Stato al servizio di poteri di casta, dell’efficienza ingegneristica al servizio della disumanizzazione.   Proprio oggi che  si presentano le  condizioni per una ripresa generalizzata del fascismo e addirittura del nazismo, in Ucraina, in Olanda, in Ungheria, nei Paesi Baltici e così via, con il maquillage delle versioni più morbide e domestiche,   movimenti non solo tollerati, ma sostenuti dall’UE e dagli USA.

E che dire della presenza da noi della Lega Nord, del suo sfoderare la sua fusione operativa  con  Casa Pound,  solo apparentemente folkloristica o estrema. Apparentemente perché è solo il loro manifestarsi ed esprimersi con toni esplicitamente “barbari” che li distingue da un altro fascismo,  più potente e più pericoloso  fatto di ignoranza, incompetenza, corruzione, familismo e clientelismo, di arroganza, di prepotenza, e di sfregio continuo alle regole della democrazia costituzionale,   di condizionamento dei media e di promesse di ulteriori censure,  di aggressione dell’opposizione, di limitazione progressiva fino alla cancellazione di ogni diritto, un fascismo pronto a dismettere il volto sorridente appena si passa dal talkshow e dall’aula alla piazza,

Non basta ricordare il male un giorno e nemmeno  gli altri 364, per impedire che si ripeta. Non basta riconoscerlo nelle facce truci degli assassini.  Ma è già molto guardare quello che alberga in noi, anche quello mediocre dell’ipocrisia, della viltà, dell’indifferenza, dell’abitudine, del disincanto per riaccendere la passione e il coraggio dell’essere uomini.


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