L’Italia non era ancora un Paese unito e nel dibattito pubblico già infuriava la critica feroce contro le sue classi dirigenti. Un attacco che alla radice è sostanzialmente aristocratico. Perso il loro antico potere di casta, i nobili contestavano aspramente la società rivoluzionata dall’avanzata borghese e liberale. Negli ottocenteschi Viceré di De Roberto, così come nel novecentesco Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, i borghesi sono “poveri arricchiti”, omuncoli senza grazia, senza valori e senza storia, decadenti già prima di aver conquistato il vertice della società.
Per la cultura aristocratica italiana, quella borghese è una élite rozza e pericolosa, perché usa a misurare tutto col metro del danaro. I borghesi sono incapaci di generosità, di lealtà, di coraggio: tutte doti che il pregiudizio di casta riconosce ai soli aristocratici. E anche il proletariato, alla fine, accetta questa lettura, perché in Italia è buono solo quello che è antico e la casta lo è senz’altro più del merito.
Forse anche per questo, tra Ottocento e Novecento, la critica anti-borghese è un argomento centrale anche della narrativa progressista. Prima i radicali e i repubblicani, poi i socialisti e i cattolici adottano uno schema polemico tutto diretto a distruggere la borghesia. Prende forma qui l’immagine di un’Italia senza borghesia, priva cioè di quel motore economico e morale che altrove (in Francia, in Inghilterra, negli USA) ha contribuito alla costruzione di un paese moderno, civile, europeo: borghese appunto.
L’antiborghesismo cresce a dismisura per tutto il Novecento. Le due guerre mondiali distruggono lo Stato liberale e il termine borghese diventa un’offesa da rivolgere al compagno dissidente.
La Grande Bellezza per gli italiani è tutto fuorché essere borghesi. È l’impegno civile dei cattolici o dei comunisti; è la costruzione di identità separate e separatiste, altre dallo stato; di nuovi indipendentismi statalisti; di prossime secessioni palingenetiche. Per dirla con Piero Gobetti, l’Italia del Novecento è diventata un paese di perfetti dannunziani. Popolo di poeti e urlatori, di balconari della domenica, di rivoluzionari che odiano l’uomo comune e adorano l’uomo solo al comando, sopra la legge e oltre il presente.
Questo futurismo parolaio e anti-borghese è la cifra distintiva della civiltà italiana dei nostri tempi. I progressisti ci hanno provato in tutti modi a sganciarsi da simile modello egemonico e nazional-popolare allo stesso tempo. Ma hanno fallito. Continuamente. La Grande Bellezza è un racconto lucido, malizioso e ubriaco di questo fallimento. Di questa sinistra nata rivoluzionaria e decaduta alla condizione di bigotta di Stato. Di quella destra forgiatasi tra le fiamme delle barricate e morta (morta dentro) a furia di frequentare i salotti della società borghese che aveva sempre fucilato con le parole (e non solo).
La Grande bellezza dice anche questo. Secondo il mio trascurabile parere.