Nell’estate del 1980, vicino alla Hoover Damm, mentre la televisione ogni tanto ammoniva che time is now, Reagan for president, una anziana signora che si arrangiava facendo bed and breakfast, anche se forse sarebbe stato meglio dire bad and fast, mi chiese se in Italia c’era l’energia elettrica. Quando risposi che Milano era stata la prima città al mondo ad essere integralmente illuminata ad elettricità, le si dipinse sul volto un segno di enorme delusione come se le si fossero accartocciate le immagini di pizzaioli e gondolieri dentro un pittoresco Paese di straordinaria arretratezza e in un certo senso le fosse venuta meno l’idea dell’America salvifica. Certo quella era la provincia profonda dove si può trovare gente che pensa che le quattro stagioni (meteorologiche non di Vivaldi) siano un dono di dio agli Stati Uniti. Ma si tratta di una mentalità radicata e che viene fuori anche negli ambienti più colti: una docente dell’università di Chicago, aveva dei dubbi se venire a Firenze perché temeva di essere assalita dalle zanzare e fui costretto a farle notare che la città del giglio, alleva, è vero, grossi roditori in forma di sindaco, ma per il resto è più a nord di Chicago e non è stata costruita in un spiazzo nella giungla.
Questo per dire che gonfiare il petto per l’Oscar alla grande bellezza, a parte la validità intrinseca del premio che è scarsina, soprattutto se riferito alle opere straniere, spesso gestite con intendimenti extra cinematografici, non significa di per sé un omaggio all’Italia com’è, ma a quella specie di babilonia dei poveri che appare al di là dell’oceano. Agli americani piace molto tutto ciò che mette il dito sulle piaghe di altri Paesi, perché conferma la loro autostima e costituisce un indiretto atto di sottomissione coloniale. Non stupisce dunque che l’Italia, maestra nel compiacimento dell’autofustigazione senza sbocchi e dunque onanistica, abbia fatto un buon bottino di statuette, mostrando i suoi mali: dalla povertà disperata di Ladri di biciclette e Sciuscià, all’abiezione razzista nel Giardino dei Finzi Contini o quella che fa la guerra senza esserne capace come in Mediterraneo o quella fantasiosa, ma moralmente incerta di Fellini o quella profondamente corrotta e criminale di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Adesso tocca alla sfascio romano della Grande Bellezza che culmina con il relitto della Costa Concordia e che come fulcro di un possibile riscatto ha un personaggio con un nome che sembra italo americano. Se il film avesse raccontato un’Italia diversa, la storia di qualcuno che cerca un riscatto etico e morale, di una Pompei non cadente, ma orgogliosamente conservata, se si fosse concluso con il “cazzo” detto in faccia al comandante fellone, l’oscar non sarebbe venuto, a prescindere dalla qualità del film. Sarebbe improprio per quella mentalità che scorre sottopelle e che il lento e tormentato declino degli States enfatizza.
Non è certo un caso che il film sia piaciuto più fuori che dentro l’Italia, come del resto accade per molti film di denuncia americani che in patria sono pressoché sconosciuti. La grande bellezza, bello o brutto che sia, sincero o furbastro, rigoroso o affastellamento di suggestioni felliniane, ha vinto la statuetta per la sua migliore qualità: quella di mostrare un Paese che fa artistico atto di contrizione al centro dell’impero.