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Se troviamo affinità e rimandi fra due film lontani, difficile decidere quanto ciò dipenda dai nostri filtri personali o -oggettivamente - dallo spirito del tempo che li ispira e avvolge entrambi. Mi riferisco a due film caratterizzanti questo 2013: l’americano Il grande Gatsby di Luhrmann e l’italiano La grande bellezza di Sorrentino. Io sono portato a sospettare che il comune riferimento alla grandezza non sia un mero caso. E penso anche che la bellezza sia il dominante leit motiv che li apparenta. Il grande Gatsby è stato giudicato film di belle immagine e belle suggestioni musicali. Meno felice nella descrizione dei caratteri, non all'altezza del romanzo di Fitzgerald. Giudizio condivisibile. Anch’io sono stato attratto dalle immagini e dai suoni. Molto attratto dalla bellezza degli abiti e in particolare dal fazzoletto annodato alla testa di Daisy. Daisy è la donna amata in gioventù da Gatsby, quella per cui il protagonista si è fatto ricchissimo. Per meritarla e per offrirle lo sfarzo degno di lei. Non riuscirà però la strategia della conquista. Nel calcolo delle convenienze che contiene e orienta anche l’amore, Daisy sceglierà il conformismo. Non così Gatsby che concluderà nell’incontro imprevisto con la morte la propria ossessione d’amore. Un amore che esclude ogni altro interesse. Daisy e Gatsby – che scopriremo tanto diversi – almeno in ciò sono simili. Non identici. Nella bulimia di bellezza e di lusso. Assoluta in lei che non possiede altri interessi. Strumentale in lui, per arrivare a lei. Il grande Gatsby è anche un film sull'esibizione del lusso. C'è un giudizio del regista su quella esibizione sfrenata? Credo di sì. Nugoli di camerieri. Nelle cene un cameriere dietro ogni commensale. E poi quel domestico ( mi ha provocato quasi un tic, un "no, questo no") che stende un tappeto davanti a Daisy mentre scende dall'auto affinché le sue scarpe non ricevano l'oltraggio della polvere. Ho sentito (è la mia lettura o tutti lo hanno sentito?) l'inaccettabile normalità del lusso, l'inaccettabile, "normale" classismo nelle decine di servitori per un uomo solo. Decine di vite consumate servendo coctail e stendendo tappetini sotto i piedi dell'upper class. Ma anche le vite degli abitanti del lusso sprecate, infine. L'arte è ambigua e noi siamo irrimediabilmente ambigui. Ho ammirato - dicevo- il fazzoletto annodato attorno alla pettinatura di Daisy. La bellezza cioè. Quella bellezza resta bellezza, pur nella consapevolezza indignata che essa è generata dal lavoro oscuro di uomini, operai e servitori al servizio del lusso di parassiti e criminali. Questo è un esempio di assoluta ambiguità. Che ci accompagna e ci accompagnerà sempre. A meno che...Perché anche il Battistero di Firenze e Piazza del Campo e il Colosseo e la Gioconda ci sono perché il lavoro degli ignoti manovali produceva ricchezza mal distribuita che finiva nell'imbuto della domanda dei ricchi e delle remunerazioni di architetti e artisti. E però l'ambiguità fra giudizio estetico e giudizio etico qui si ferma. Perché resto convinto che senza lo sfruttamento e l'ingiustizia endemica, non avremmo avuto né Piazza Del Campo, né la Gioconda, né la bellezza di Daisy. Altrettanto convinto sono però che avremmo avuto altra bellezza, forse un minor numero di capolavori, ma una bellezza più continua e diffusa in ogni angolo del mondo. La grande bellezza di Sorrentino è la storia di una bellezza diversa, di una città dalla bellezza che acceca e uccide (letteralmente nel film, nel turista stroncato da infarto alla vista di Roma dal Gianicolo). Anche in Sorrentino, come in Luhrmann, c’è la bellezza struggente di un ricordo giovanile. Il “quello che poteva essere e non è stato”. Esempio “fra gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza” cui segue la normalità dello “ squallore disgraziato e l’uomo miserabile”. Jep Gambardella (Toni Servillo) è il protagonista della nuova dolce vita romana. Autore di un solo romanzo, quanto basta per definirsi “romanziere”. Anche lui, non dissimilmente da Gatsby, autore di un progetto di grandezza sulla propria esistenza. Un po’ in scala minore. La capacità di far fallire qualunque festa sarà la cartina di tornasole con cui misurerà la propria grandezza. Sullo sfondo quel ricordo giovanile che ferisce come una lama. La giovane fidanzata che gli offre lo sprazzo di bellezza della camicetta d’improvviso slacciata per mostrare i seni acerbi. Dopo quella apparizione solo “lo squallore disgraziato”. La bellezza degli eventi straordinari e irripetibili della vita quotidiana. Più intensi del contatto con la Gioconda e che però non si può tornare ad ammirare, assolutamente non replicabili. Alice che a due anni e mezzo, aspetta con la mamma sulla porta di casa. Vede arrivare in fila prima il papà, poi la nonna e infine il nonno. Ci conta e ci nomina man mano e quando arrivo io dice: “tuttiii”, facendo un gesto inclusivo con le braccine. E io sono felice di sentirmi incluso, parte del suo tutti . Non replicabile. Le chiedo il bis ogni tanto. Ma non è la stessa cosa. La sua voce, il contesto, tutto cambiato. La bellezza degli eventi irripetibili della vita quotidiana. In entrambi i film la festa è la cornice dominante. Il jazz degli anni 20 e la disco music di uno scorcio di anni 2000. In entrambi un ballare fino allo sfinimento. Con la felicità orgastica di un’epoca, quella degli anni 20, che ha incontrato uno sviluppo impetuoso e l’ascensore sociale. Per quei pochi ovviamente che comunque ci lasceranno i colori di un’epoca. In Sorrentino un danzare compulsivo nella bruttezza dei volti rifatti, in una catena di montaggio che assicura prezzi standard e bellezza standard (ovvero bruttezza). La bellezza della città (cioè del passato) e la bruttezza estetica e morale degli abitanti delle feste. La cocainomane che sniffa in cucina. Una Serena Grandi (coraggiosa o masochista) mostrata ora, tanti anni dopo l’aver incarnato l’immaginario erotico degli italiani. O la figura capolavoro del cardinale (Herlitzca) indifferente a fede e speranza e però autentico culture di raffinata gastronomia. Perché non è la fede (l’abito cardinalizio e la gastronomia sì) che può introdurre nel giro che conta. O, quando è la fede, è la fede teatrale della suora ultracentenaria. Sorrentino rinuncia a mostrare i cittadini normali, il lavoro, la fatica, la vita. Li mostra per un attimo nello sguardo perplesso, rassegnato e quietamente severo della domestica immigrata nell' assistere alle sniffate della padrona. Nel Verdone, giornalista di chiaro insuccesso, che annuncia il ritorno nella sua provincia. Sorrentino nasconde tutto nella Roma bellissima e addormentata delle albe e delle notti. Nel Grande Gatsby la bruttezza appartiene alla periferia e ai suoi abitanti, nella Grande bellezza la bruttezza è prerogativa della classe dirigente e dei parassiti che la circondano. Condivido l’interpretazione della Grande bellezza come un seguito della Dolce Vita. Un seguito appunto, non un remake. Direi che La dolce vita è invece assimilabile al Grande Gatsby, nella società che descrive. Nell’uno e nell’altro i fortunati gaudenti hanno anima, speranza, ricerca della gioia e inquietudine. Sono gli esponenti di una classe invidiata e invidiabile. Ma mentre Fellini avvolgeva col suo sguardo pietoso i suoi protagonisti, nella Grande bellezza i personaggi sbiadiscono in una poltiglia di non senso. Il seguito della Dolce vita è quindi una vita vuota e amara. Estetica del privilegio, implacabilmente critica nella Grande bellezza che è più un saggio sulla bruttezza, ambigua nel Grande Gatsby. Anni luce di distanza ovviamente dalla scoperta degli uomini normali, quelli che non fanno né storia né cronaca, anni luce dalla lezione del neorealismo. Così, dopo tanta grandezza e tanta bellezza, mi è venuta voglia di rivedere Umberto D.
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