Nel mondo multipolare ed iperconnesso, si sono sviluppate forme diverse di contrasto agli avversari, ingenerando nuovi terreni di scontro. Uno di questi sono i social network, inizialmente luoghi virtuali di incontri e scambi di opinione, ora assorti al ruolo di informazione ma anche di controinformazione. Distinguere i tratti corretti da quelli che intendono sviare la realtà è estremamente complesso, soprattutto se la deception è formulata da professionisti. La negazione dei dati, intesi come territorio inviolabile di uno Stato sovrano, piuttosto che di una organizzazione transnazionale quanto di una azienda privata, passa per la guerra cognitiva, od anche per la guerra post-eroica.
Le operazioni psicologiche, psyops, subiranno un upgrading con i Facebook Warriors voluti dall’intelligence britannica. I nuovi soldati della disinformazione sono inquadrati nel 77° Battaglione dell’esercito inglese come unità delle Forze Speciali. Ciò si traduce in personale altamente addestrato in operazioni complesse e coperte che tendono allo sviluppo di strumenti adatti alla deception, ma anche alla distruzione, interdizione, degradazione ed usurpazione delle reti di mappature, come precisato in un documento dell’United States Air Force (USAF).
Una delle tattiche con la quale combatteranno è definita: “controllo del riflesso”. Adottata principalmente dai sovietici, consiste nel confezionare ad arte informazioni false in tal modo da indurre il soggetto bersaglio a reazioni già previste e programmate. Una sorta di false flag combattuta su facebook e twitter, dove ad uso degli utenti verranno diffuse disinformazione e verità abilmente mescolate tra loro da non poter distinguere deve sia celato l’inganno. I Chindits del 77° Battaglione, così denominati a ricordo dell’unità partigiana che operò in Birmania dal 1942 al 1945, diverranno operativi dall’aprile 2015 ed il raggruppamento sarà composto da 1500 guerrieri dello spazio virtuale.
La guerra cognitiva, è un passaggio da quella di annientamento al nuovo concetto di operazioni diverse dalla guerra classica, il quale potrebbe ingenerare effetti psico-sociali imprevedibili, dove la sicurezza dell’individuo non sarebbe garantita, dunque paragonabile al pericolo di un conflitto nucleare. Una non-guerra combattuta nello spazio virtuale dove la vittoria è più rappresentativa di uno scontro militare, oppure, citando Luttwak, la guerra post-eroica. Quest’ultima, probabilmente non potrà prescindere dal sistema finanziario e dallo sviluppo tecnologico, in particolare quello applicato al commercio ed ai servizi. Di fatto, le armi informatiche potranno essere le capacità e le identità civili. L’obiettivo della disinformazione si prefissa la non distruzione dello Stato avversario, ma un’azione psicologica contro il nemico nel suo territorio. Una politica della comunicazione volta a demotivare il competitore, ma a lasciare intatte le loro risorse. Un concetto antico, che risale a Sun Tzu, ignorato nelle guerre convenzionali, ma ripreso nel mondo contemporaneo, dove salvaguardare le risorse tecnologiche e naturali dell’antagonista, per essere tratte dalla parte del vincitore, rappresentano la nuova filosofia della conquista.
La guerra dell’informazione del 77° Battaglione, si prefissa operazioni sulla psicologia sociale, ossia influenzare emozioni e motivazioni dell’antagonista in modo da poterne controllare e prevenire i comportamenti. Una diversa concezione delle relazioni conflittuali tra Stati, una capacità cognitiva che, attraverso l’elettronica e l’informazione, tende a produrre consensi sia in patria che sugli avversari. Questo scenario avrà come risultanza una necessaria crescita del controllo della sicurezza interna, andando a rendere sovrapponibili i concetti di sicurezza e difesa.
L’obiettivo del controllo dell’informazione è ledere il sistema cognitivo, dunque non più il corpo ma la mente, ossia instaurare una percezione dell’identità alterata di una persona o di una organizzazione. La risultanza sulla distribuzione di immagini, simboli od informazioni, che produrranno i Facebook Warriors, rappresenta una forte incognita; infatti è prevedibile, ma non certa, la decodifica che i ricettori assegneranno ai singoli eventi creati dalle Forze Speciali britanniche: in base al retaggio culturale, alle credenze religiose, al ceto sociale di appartenenza, alla condizione economica personale ed alla società in cui vive, ogni singolo soggetto bersaglio avrebbe una diversa percezione della falsa realtà mediatica che gli verrà imposta, dunque le reazioni potrebbero non essere quelle pianificate dagli inglesi e le implicazioni sarebbero imperscrutabili.
Di fatto, gli effetti alle azioni di manipolazione cognitiva occasionerebbero risvolti molteplici e non determinabili. Una minaccia che si estenderebbe a tutte le Nazioni, anche a quelle dalle risorse economiche e tecnologiche non sviluppate. Pericolo che aumenta esponenzialmente in quei Paesi dalla scarsa omogeneità nazionale o fortemente divisi fra etnie culturali e religiose. Con l’ausilio della guerra cognitiva si può tendere anche a rallentare lo sviluppo di una Nazione evoluta distruggendo le sue tecnologie, un vantaggio competitivo di peso specifico importante nel contesto della guerra post-eroica.
Per bilanciare gli squilibri regionali e globali, è stata ipotizzata anche la deterrenza nucleare: ossia creare una compensazione fra Stati basata sulle armi di distruzione di massa che possa trasmutarsi in un equilibrio cognitivo. La parificazione nucleare non escluderebbe in ogni caso le ingerenze della disinformazione, ma si annullerebbe nelle micro conflittualità regionali, le cui cause a volte sembrano distanti dalle logiche dominanti dei Paesi tecnologicamente ed economicamente avanzati. La proliferazione nucleare di un singolo Stato, avrebbe un forte impatto sulla società della Nazione stessa, con il rischio della nascita di gruppi dalla forte identità, pervasi da un super-io tale da indurli ad accettare la distruzione totale e dunque di loro stessi, come strumento razionale per raggiungere il fine prefissato.
Nella guerra cognitiva della disinformazione, non dovrebbero verificarsi perdite umane, da qui il concetto di post eroica, ossia l’assenza di forze militari sul campo non ingenererà vittime, ed ovviamente non potranno essere perpetrati atti di eroismo che condurranno al sacrificio gli eroi stessi. Pertanto si configurerebbe la possibilità di etichettarla come guerra giusta. Tale concezione è ricordata da Roland Bainton nel citare Platone: per poter essere considerata giusta, deve avere come obiettivo la rivendicazione della giustizia ed il ristabilimento della pace. Dove, però, l’applicazione della giustizia sia equa, i diritti dei vinti non siano lesi e la pace non sia negativa.
Come descritto dal giurista Carl Schmitt, la “justa causa”, non deve prescindere dallo “justus hostis”, ossia il nemico non è inumano e non può essere combattuto con ogni mezzo, perciò dovrà essere affrontato come un individuo dai pari diritti contro il quale è necessario limitare l’uso della forza, sia fisica che mentale. Inoltre, afferma che nella dottrina dello “jus in bello” è contemplata la discriminazione degli obiettivi, in quanto ledere il commercio e l’economia dell’avversario coinvolge non solo l’Industria della Difesa, bensì i cittadini e non ultimo il Paese neutrale che intrattiene rapporti commerciali con il nemico.
Anche Norberto Bobbio ha affrontato la teoria della guerra giusta nel profilo della giurisprudenza, sottolineando che in tal caso è necessaria una distinzione fra un processo di cognizione ed uno di esecuzione. Nel secondo caso, la guerra è intesa come pena o come sanzione da comminare al nemico, e l’atto di belligeranza è esaltato nella forza che dunque si pone al servizio del diritto. Nel processo di cognizione, le operazioni militari trovano il loro limite in quanto non adatte a discriminare il giusto dall’ingiusto, infatti manca un attore al di sopra delle parti che possa giudicarne i criteri di esecuzione, questo perché la guerra è giusta per entrambi i contendenti. Di fatto, la non discriminazione dei soggetti bersaglio tende a discostare la guerra giusta da quella cognitiva.