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La laurea dei disoccupati

Creato il 15 marzo 2012 da Faustodesiderio

Che cos’è la disoccupazione intellettuale? Luigi Einaudi la considerava né più né meno che un’aberrazione tutta italiana. Si può capire, infatti, cosa sia la disoccupazione manuale ma cosa sia l’intelletto disoccupato è un mistero. Se esiste la categoria sociale del “disoccupato intellettuale” è perché esiste l’illusione che ad un titolo di studio debba corrispondere una funzione, una dirigenza, un lavoro, una mansione. Einaudi non si stancò mai di far notare due cose: a) che il collegamento indebito tra titolo e lavoro genera l’illusione che il “pezzo di carta” dia un diritto lavorativo; b) che l’uso dell’università e della scuola per sfornare diplomi e lauree dal valore legale è una svalutazione della formazione e della ricerca e di conseguenza un impoverimento della vita economica e morale che non possono più contare su merito, capacità e intraprendenza ma su inutili titoli legali.

Il pensiero comune sostiene che l’università debba servire a trovare un lavoro. Ma l’ultima analisi di Almalaurea dimostra che l’università ha di fatto fallito questo compito: più aumentano i laureati, più aumentano i disoccupati. Il presidente degli Industriali di Caserta ha detto che è necessario creare un link tra mondo delle imprese e mondo dell’università per far incontrare domanda e offerta. Può darsi che una maggior informazione possa essere utile ma il problema è di tutt’altra natura. I dati di Almalaurea dimostrano che il sistema dell’università che sforna laureati pronti a spendere il loro titolo di studio nel lavoro è entrato definitivamente in crisi. Si tratta della fine dell’illusione che Einaudi aveva messo bene in luce.

Il sistema è da capovolgere. Il governo Monti ha toccato il tabù dell’abolizione del valore legale dei titoli di studio. Lo ha toccato e poi si è ritratto perché nello stesso Consiglio dei ministri non c’era piena condivisione e si è così scelta la strada della “consultazione democratica”. Si vedranno i risultati. Fin da ora, però, si possono far rilevare due cose preliminari. L’abolizione o svalutazione del valore legale dei titoli di studio ha almeno due conseguenze: la prima riguarda la pubblica amministrazione e la seconda il sistema scolastico e delle accademie. Oggi il sistema funziona così: lo Stato si rivale su scuola e università per allevare impiegati e dirigenti e attraverso i titoli regola l’accesso agli uffici. Se si abolisce il valore legale si cambia anche il sistema di accesso alla pubblica amministrazione che dovrà avvenire in base al merito effettivo e non ai titoli supposti. C’è bisogno, dunque, di una riforma della pubblica amministrazione che contempli un rigoroso sistema di esami di Stato extrascolastici per l’accesso agli uffici.

Ma l’abolizione del valore legale dei titoli di studio ha conseguenze (per fortuna) anche sul mondo della scuola e dell’università. Se diplomi e lauree non hanno più valore legale che valore avranno? Quello compete loro per natura: il valore culturale. Però, come è da prevedere una riforma della pubblica amministrazione per il reclutamento di impiegati e dirigenti, allo stesso modo c’è bisogno di una riforma della scuola e dell’università che riguarda inevitabilmente gli esami. Riforma scuola e università, infatti, significa riformare gli esami. Se ora ci sono esami in uscita, ci dovranno essere esami in entrata sia per la scelta della scuola sia per la scelta dell’università e si possono prevedere anche esami interni. Ma qui sono le scuole possono organizzare al meglio il loro lavoro, mentre al ministero compete solo una funzione di controllo.

In questo modo scuola e università raggiungerebbero due obiettivi: avrebbero l’opportunità di ritornare ad essere “solo” scuole e università e non sarebbero più “corsi di formazione” per aziende, uffici, burocrazie. Ma d’altra parte proprio aziende, uffici, burocrazie potrebbero contare  – con il tempo, si capisce -  su soggetti che si sono formati sul merito e sulle capacità e non sul possesso di titoli. Solo se la scuola forma e l’università pensa avremmo soggetti liberi e determinati, altrimenti ci saranno sempre i “disoccupati intellettuali”.

tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 15 marzo 2012



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