La Lega molla Silvio. Con chi vincerà il Cavaliere è un mistero, forse con Vercingetorige. Ingroia attacca Grasso: mannaggia alla sinistra.

Creato il 30 dicembre 2012 da Massimoconsorti @massimoconsorti
Fallito il primo vertice con la Lega, tenuto nella sua casa milanese, Silvio sta seriamente pensando che la sua ridiscesa in campo non ha avuto l'effetto sperato. Che non era vero che gli italiani lo volessero ancora per sollevare le sorti di una nazione ripiegata su se stessa. Che, a parte qualche amazzone, personaggi terrorizzati dal poter finire in galera, evasori totali e nullafacenti sparsi, la realtà era ben diversa da quella che Berlusconi aveva sognato nelle notti piene di stelle, abbaiando alla luna. Bobo Maroni gli ha detto chiaro e tondo che non gradisce la sua autocandidatura a premier. Che lui preferisce Occhibelli Alfano. Che se i leghisti di Pontida, quelli con le corna vichinghe e il rutto libero, lo vedono ancora aggirarsi da quelle parti, potrebbero mettere mano ai forconi. Maroni gli ha spiegato che è diventato un personaggio scomodo, impresentabile, e che si è rotto le palle di tranquillizzare ogni volta le Miss Padania terrorizzate dal dover soddisfare il regale augello del Sire di Arcore e Saint-Lucia, a ogni colpo di telefono. Silvio, ovviamente, non ha gradito e, come sempre, ha minacciato, ricattato, sproloquiato, dato di testa, offeso, ferito, infamato, ingiuriato i Lumbard che non se lo filano più, manco di pezza. La prima minaccia è stata: “Faccio fallire le giunte regionali del Veneto e del Piemonte e quelle di un altro centinaio di comuni dove la Lega regge grazie al Pdl”. La seconda: “Da soli siete un partitino che non conta un cazzo, e che a Roma potreste occupare al massimo i tavoli della Parolaccia. Quattro gatti disorientati e un topo ballerino”. Poi, com'è sua abitudine, se l'è presa nell'ordine, con: Mario Monti, Pietro Grasso, Antonio Ingroia, Piergigi Bersani, Gianfranco Fini, Pierfy Casini, Nichi Vendola e ha minacciato: “Se vinco le elezioni, subito una commissione d'inchiesta per smascherare il golpe contro di me”. Affetto, come Giulio Cesare, dalle manie di persecuzione, sulle quali si è costruito una brillante carriera politica, Berlusconi ha un bisogno folle di avere davanti a sé nemici, veri o falsi non importa, l'importante è che siano bersagli facilmente centrabili a mezzo stampa o con una intervista da Barbara D'Urso. La sicumera con la quale insiste a dire che “vincerò le elezioni anche da solo”, nasconde ormai la disperazione per una situazione che Silvio sa benissimo, persa in partenza anche se, come ci ha insegnato in venti anni di strapotere, dare per morto il Cavaliere è il modo migliore di farlo ancora trionfare. Arrivano intanto i primi risultati delle primarie del Pd. Avanzano i giovani e le donne, arretrano i dirigenti di lungo corso, gli ex impiegati del Pci, i boiardi della sinistra che fu. Rosy Bindi tiene in Calabria, mentre lo spin-doctor di Matteo Renzi, Giorgio Gori, rimedia solo un 13 per cento a Bergamo, che significa esclusione dalle liste, a meno che... Ingroia ha sciolto le riserve, si candiderà. È accaduto però quello che tutti temevano, la prima dichiarazione utile è stata contro Pietro Grasso, l'ex capo nazionale dell'antimafia. Ci dovrebbe spiegare, il giudice Ingroia, perché la scelta di candidare Grasso nelle file del Pd, è stata dettata da Berlusconi. Vabbé che nel 2005 venne scelto proprio da Silvio (in alternativa a Giancarlo Caselli) come capo della direzione nazionale antimafia. Vabbè che nel maggio del 2012, Grasso pensò di dare un premio al governo Berlusconi per la sua lotta contro la mafia, ma da qui a dire che è stato scelto da Silvio, ce ne corre. Ci sembra di rivivere i vecchi schemi illogici della sinistra: quando c'è aria di vittoria è meglio mandare tutto a puttane, governare costa una fatica della madonna.

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